Bibliografia sull'attore cinematografico
Vincent Amiel, Jacqueline Nacache, Geneviève Sellier, Christian Viviani (sous la direction de), L’acteur de cinéma: approches plurielles, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 2007.
Negli ultimi decenni, grazie al crescente interesse sviluppatosi in ambito accademico ma non solo, l’attore e la recitazione hanno guadagnato una posizione sempre più rilevante, fino a raggiungere una piena legittimazione come ambiti di studio e di ricerca. L’acteur de cinéma: approches plurielles vuole dare conto delle diverse prospettive e dei molteplici approcci con i quali la recitazione cinematografica è stata affrontata e analizzata nel corso del tempo. A partire dai temi emersi durante il convegno «L’acteur de cinéma, approches pluridisciplinaires», organizzato nel 2005 al Centre Culturel International de Cerisy-la-Salle, il volume curato da Amiel, Nacache, Sellier e Viviani affronta questioni relative all’attorialità cinematografica attraverso diversi studi di caso e differenti approcci: storico, sociologico, estetico, antropologico, economico.
“Or il y a sans doute une dimension que les études cinématographiques sur l’acteur ne devront pas oublier, et qui ne semble pas au centre des préoccupations pour l’instant, c’est précisément ce que l’on pourrait appeler une ‘anthropologie de l’incarnation’, une prise en compte de l’image que l’acteur s’attache à construire. L’image, au sens matériel, concret, sensible, et non métaphorique. L’image, et non la représentation.” Vincent Amiel, L’objet premier du cinema (p. 9).
Cynthia Baron, Sharon Marie Carnicke, Reframing Screen Performance, University of Michigan Press, Michigan 2008.
Per quale motivo l’attore cinematografico è stato a lungo trascurato o sottovalutato nell’ambito dei film studies? Baron e Carnicke ritengono che i discorsi attorno alla recitazione abbiano risentito della mancanza di un lessico specifico, anche perché la performance è stata spesso analizzata separatamente rispetto agli altri elementi che costituiscono il film. Reframing Screen Performance, facendo tesoro dei recenti sviluppi della riflessione sull’attore cinematografico, presenta un’articolata proposta metodologica che permette di leggere la performance alla luce di “filtri” quali l’analisi del movimento di Laban, le scelte tecniche di regia, lo studio della sceneggiatura. A partire da opere filmiche di differenti generi, periodi e nazionalità, e alcuni studi di caso, il volume dimostra come la performance attoriale sia a tutti gli effetti parte integrante del film, indagando come questa entri in dialogo con gli elementi stilistici, tecnico-linguistici e narrativi dell’opera.
“Film actors contribute to a complex, composite medium. […] Films create meaning not by the combination of inert physical and vocal elements but instead through the selection and combination of recognizable human gestures and expressions that carry dense and often highly charged connotations that can be variously interpreted” (p. 17).
Christophe Damour, Jeu d’acteurs. Corps et gestes au cinéma, Presses Universitaires de Strasbourg, Strasbourg 2016.
Gli studi sulla recitazione in ambito francese, secondo Christophe Damour, differiscono dagli star studies di area anglosassone poiché i primi pongono al centro dell’attenzione la performance, mentre i secondi, seguendo la prospettiva dettata da Richard Dyer, si concentrano maggiormente sui simboli e i valori che le star veicolano. Tenendo a mente questa osservazione Damour riflette sui due approcci che distinguono lo studio dell’attore a partire dalle definizioni di “star persona” e “star performance” proposte da Butler. I saggi qui raccolti avanzano riflessioni che si inseriscono in entrambi i filoni, da studi che affrontano la performance attoriale ad altri che si concentrano su star del cinema mondiale, come ad esempio il contributo di Christian Viviani su Anna Magnani, o quello di Michel Cieutat su Stephen Boyd. I saggi che compongono questo volume si rifanno dunque a metodologie e approcci differenti, ma l’eterogeneità complessiva del testo viene superata dal comune intento degli autori di promuovere un’estetica della recitazione cinematografica.
“En tension perpétuelle entre le “tableau” et l’”épithète”, la rigueur statistique et l’interprétation poétique, les études actorales cherchent à comprendre et à rendre compte d’un mécanisme gestuel et d’un travail corporel au cinéma” (p. 14).
Alan Lovell, Peter Krämer (eds), Screen Acting, Routledge, London-New York 1999.
"What do actors do to create a performance? What are their specific skills? What are the general ideas which inform the use of those skills?” A partire da questi e altri interrogativi, il volume curato da Lovell e Krämer - uno dei primi reader dedicati alla recitazione cinematografica - presenta differenti approcci e offre numerosi spunti di riflessione, proponendosi come una ricognizione ad ampio raggio sullo stato dell’arte in questo campo di studi relativamente “giovane”. Lovell e Krämer hanno raccolto saggi dei principali studiosi e studiose (Baron, Carnicke, Pearson, McDonald, Schingler) che indagano specifici aspetti o casi relativi al contesto hollywoodiano e alle influenze che quest’ultimo esercita sulla recitazione europea, in particolare quella inglese. Il volume adotta una prospettiva intermediale e indaga in particolare i legami tra cinema, televisione e teatro, con specifico riferimento alla relazione esistente tra recitazione cinematografica e teatrale.
“Both in theatre and cinema, acting is an elusive art. A performance is made out of a large number of actions, gestures, facial and vocal expressions. It’s made all the more elusive when the dominant acting convention is a naturalistic one. Viewing a naturalistic performance, it’s easy to assume that the gestures, actions, and expressions are the only appropriate ones […]. The decisions the actor has made are invisible. Given this, it becomes almost inevitable that the actor disappears into the character or, vice versa, the character disappears into the actor” (p.5).
Jacqueline Nacache, L’acteur de cinéma, Nathan, Paris 2003 (ed. it. L’attore cinematografico, a cura di A. Scandola, Negretto Editore, Mantova 2012).
“L’attore di cinema non è stato regalato al film, ma fabbricato, conquistato, quasi inventato da esso”, afferma Nacache. In questo testo fondativo, pubblicato all’inizio degli anni Duemila e tradotto in italiano in anni più recenti, l’autrice propone un’articolata riflessione sull’analisi della recitazione e sulle difficoltà legate alla definizione di precise linee metodologiche. Il testo, intrecciando prospettiva storica e riflessione teorica, analizza un ampio spettro di questioni, concentrandosi in particolare su film e traiettorie di attori appartenenti alla cinematografia statunitense e francese. Dai divi del muto agli attori non professionisti del neorealismo, dagli attori dell’era postmoderna ai principali esponenti del Metodo, l’autrice riflette su caratteristiche e contraddizioni di alcune figure centrali apparse su grande schermo, offrendo una utile panoramica di questioni cruciali e di snodi storici, teorici e stilistici indispensabili per lo studio della recitazione cinematografica.
“L’attore di cinema non è stato regalato al film, ma fabbricato, conquistato, quasi inventato da esso: questo aspetto merita almeno un’inchiesta dettagliata nel corso della quale nascerà forse un’altra certezza. […] Che l’attore sia fermo o in movimento, che nasconda il suo personaggio o sia nascosto da lui, che la cinepresa lo capti interamente o in parte, qualsiasi film recitato sviluppa delle forme attoriali più o meno ricche o significanti, ma pienamente ancorate nelle strutture filmiche” (p. 24).
James Naremore, Acting in the Cinema, University of California Press, Berkeley 1988 (ed. it. Acting in the Cinema, CUE Press, Imola, in corso di pubblicazione).
Acting in the Cinema è considerato ancora oggi uno dei testi più rilevanti per lo studio dell’attore cinematografico, poiché offre un quadro teorico di riferimento e ne mostra le possibili applicazioni attraverso diversi studi di caso. Il primo capitolo, intitolato Performance in the Age of Mechanical Reproduction, è dedicato a questioni teorico- metodologiche relative alla recitazione e all’individuazione di coordinate e categorie utili per l’analisi dell’attore cinematografico. Nel secondo capitolo lo studioso propone sette studi di caso, da Lilian Gish e Charlie Chaplin a Marlon Brando e Cary Grant, indagati alla luce di quanto illustrato nella parte iniziale del volume. Il testo propone infine un ultimo capitolo, dal titolo Film as a Performance Text, all’interno del quale trovano spazio le analisi di Rear Window e The King of Comedy. I due film, appartenenti a epoche e contesti differenti, sono funzionali all’introduzione di una riflessione attorno all’immagine pubblica dell’attore, alla stratificazione dei ruoli cinematografici e ai rimandi intertestuali messi consapevolmente in gioco da registi e autori.
“As many theorists have noted, actors use analog techniques; their movements, gestures, and inflections are presented in gradations of more or less – subtle degrees of everchanging expression that are easy to comprehend in the context of a given film but difficult to analyze without falling back on unwieldy tables of statistics or fuzzy, adjectival language. I have not been able to avoid this problem entirely, although I prefer adjectives to statistical tables. At best, I try to mix phenomenological description with other methods, showing how performances can be understood in roughly the same way as ‘narratology’ has understood plots. […] By analyzing the paradoxes of performance in film, by showing how roles, star personae, and individual “texts” can be broken down into various expressive attributes and ideological functions, we inevitably reflect upon the pervasive theatricality of society itself” (pp. 2-6).
Francesco Pitassio, Attore/Divo, Il castoro, Milano 2003.
Il presupposto principale da cui il testo prende avvio è la necessaria distinzione tra discorsi legati alla star e discorsi connessi all’attore cinematografico. Attore e divo rimandano a fenomeni differenti ed è dunque necessario, secondo l’autore, adottare e applicare metodologie distinte. Il volume pertanto offre una ricognizione ragionata dei principali contributi teorici, a partire da questioni generali e preliminari che riguardano la presenza umana sullo schermo, il concetto di personaggio, i modi di rappresentazione e i codici espressivi, per poi passare in rassegna i principali sviluppi delle teorie sull’attore e sul divismo. L’ultima parte del testo raccoglie alcuni contributi teorici (dal noto articolo di Louis Delluc sulla fotogenia al saggio di Thomas Harris sulla costruzione dell’immagine popolare) che hanno approfondito questa distinzione terminologica e metodologica.
“Discutere d’attorialità e divismo al cinema comporta oggetti analitici distinti. Le loro problematiche spesso si sovrappongono, rischiano di coincidere, a tratti confliggono. Qui si propone la seguente discriminazione. L’indagine sull’attore implica una considerazione della presenza umana in termini di lavoro prodotto in un’economia testuale, al fine di determinare un certo risultato, attraverso l’esplicazione di un contributo valutabile in termini di stile. Di conseguenza, l’attore cinematografico presuppone un soggetto attivo tra ulteriori istanze preposte alla produzione di senso del testo. […] L’indagine sul divismo prevede una considerazione della presenza umana come immagine, adeguamento a un modello umano, attribuzione di determinati tratti di personalità sullo schermo e nella realtà mediatizzata della celebrità” (p. 8).
Pamela Robertson Wojcik (ed. by), Movie Acting. The Film Reader, Routledge, London-New York 2004.
Quali elementi determinano la differenza tra la recitazione cinematografica e quella teatrale? Come è cambiata la recitazione nel corso dei secoli? Come e perché il genere cinematografico influisce sul lavoro dell’attore? Questi sono soltanto alcuni degli interrogativi cui il volume curato da Pamela Robertson Wojcik intende rispondere. Il volume raccoglie saggi di alcuni dei principali studiosi che hanno affrontato il problema dell’attorialità cinematografica da diverse prospettive: dai contributi teorici di Kracauer e di Cavell che aprono il volume, fino a studi più recenti dedicati a specifici aspetti o casi di studio. Il volume offre una panoramica delle principali linee entro cui si è sviluppata la riflessione sulla recitazione cinematografica e su quali questioni si sia principalmente concentrata. Alcuni saggi, tra i quali quello di Pamela Robertson Wojcik stessa, riflettono sulle dinamiche di mercato che condizionano il casting nel contesto hollywoodiano, altri ragionano sulle evoluzioni dello stile recitativo nelle diverse fasi storiche, dalla nascita della recitazione cinematografica alla Hollywood classica, fino alla New Hollywood.
“Since the publication of Dyer’s book, film studies and cultural studies have developed a deep and impressive body of work on the film star. However, star studies have not been inclined to deal extensively with acting per se. Star studies […] are apt to focus on a star’s extratextual circulation, fandom, type, and ideological meaning without necessarily attending in any exact and descriptive way to what the actor does on screen to produce him or herself as a type, and without situating the actor in larger acting traditions. […] Rather than conventional theories of acting, most star studies have been influenced by performance studies as an interdisciplinary area of study. […] The notion of performance allow us to widen our conception of film acting to include not only traditional schools of acting, such as Stanislavskian or Method-based styles, but also modes of performance from other media, such as radio, vaudeville, circus, or drag shows” (p. 7).
Jorg Sternagel, Deborah Levitt, Dieter Mersch (eds), Acting and Performance in Moving Image Culture. Bodies, Screens, Renderings, Transaction Publisher, New Brunswick-London, 2012.
Le nuove tecnologie impongono di ripensare la performance attoriale e, più in generale, la presenza stessa del corpo umano all’interno della diegesi. Questa raccolta di saggi si propone di offrire una dettagliata ricognizione di come gli studi sull’attorialità e sulla performance siano entrati in relazione con i mutamenti dello scenario audiovisivo, proponendo nuovi approcci metodologici utili alla comprensione di fenomeni in costante evoluzione. I contributi sono suddivisi in cinque sezioni che rimandano a differenti binomi tematici (Presentations and Representations, Appearances and Encounters, Affects and Affections); all’interno di ogni sezione sono presenti casi di studio che affrontano il tema dello studio della recitazione da una prospettiva transdiciplinare, che va dalla danza all’animazione, dalla filosofia ai media e cultural studies.
“We may very well interact with screens and moving images many times per day […] and this interaction of course includes creating and sharing our own audiovisions, now easily captured with cell phone cameras and uploaded onto the web. […] No doubt […] the figure of the “film actor” morphs and transforms (in) this new environment, demanding new approaches to the work of performance” (p. 55).
Aaron Taylor (ed. by), Theorizing Film Acting, Routledge, New York-London 2012.
Il volume intende creare un ponte tra la riflessione teorica e la percezione diffusa e generica della recitazione, proponendo una ricognizione ad ampio raggio in grado di raccordare le diverse diramazioni dei discorsi sull’attore cinematografico. Il testo raccoglie una serie di contributi dei principali studiosi di area anglosassone, ordinati lungo quattro direttrici: teorico- estetica, di ricezione, storico-culturale e tecnico-stilistica. Gli obiettivi principali di questa antologia, tracciati da Aaron Taylor stesso, sono essenzialmente tre: fornire un quadro teorico sul fenomeno della recitazione cinematografica, ampliare e rinnovare il vocabolario specifico utilizzato per descrivere la performance attoriale e, in ultimo, analizzare il lavoro dell’attore tenendo in considerazione le diverse prospettive dei film studies contemporanei.
“It seems a curious phenomenon, in some respects, that casual evaluations of acting often serve as initiatory gestures toward a more coherent assessment of a film. [...] So, why do casual conversations about film - especially among non-specialist viewers - often turn so readily toward discussions about acting? […] What we might begin to recognize is that these casual deliberations can frequently serve as tacit substitutions for (or self-reflective entry point into) more explicit and coherent theories of filmic engagement and/or appreciation” (pp. 2-5).
Claudio Vicentini, L’arte di guardare gli attori. Manuale pratico per lo spettatore di teatro, cinema, televisione, Marsilio, Venezia 2007.
Il testo di Claudio Vicentini propone diversi elementi innovativi rispetto alla letteratura coeva, tra i quali emerge anzitutto la volontà di proporre al lettore semplici e chiare indicazioni per la lettura della performance attoriale, nonché di offrire un’ipotetica e alternativa “storia della recitazione”. Il volume dà ampio spazio a confronti e analisi delle tecniche dell’attore e ragiona anche sull’evoluzione di quest’ultime, prediligendo una prospettiva intermediale. Da Marlon Brando a Totò, da Dario Fo a Marilyn Monroe, il volume offre alcune chiavi e criteri per l’indagine del lavoro dell’attore, passando in rassegna non solo i cliché della recitazione, ma anche tecniche e trucchi adottati dagli attori nel corso della storia del teatro, del cinema e della televisione, per immedesimarsi nel personaggio o per imitarlo. Parte del testo è dedicata al ruolo giocato dalla macchina da presa e dalla telecamera in rapporto con la recitazione.
“Nessuno, proprio nessuno, per bravo che sia, è in grado di imitare se stesso. Perciò quando la figura e il carattere naturale dell’attore sono troppo simili a quelli del personaggio la recitazione rischia di essere piatta, inerte, poco efficace. Rischia, insomma, di scadere nella semplice finzione. I tratti caratteristici del personaggio perdono il colore, la vivacità, la chiarezza che è propria dell’invenzione artistica. E al posto del personaggio resta soltanto l’attore che non inventa, non immagina, non crea, ma si presenta sul palcoscenico limitandosi a fingere sentimenti che non prova e a simulare gioia, dolore, disperazione e via dicendo, come capita a tutti noi, appunto, ai matrimoni e ai funerali” (p. 119).