L'alba di un nuovo star system

Report “Industria culturale e identità di genere. Il divismo cinematografico italiano contemporaneo”

SILVIA VACIRCA 3 LUGLIO 2022
Benedetta Porcaroli for Gucci

Benedetta Porcaroli for Gucci

INTRODUZIONE ALLA “GENERAZIONE Z”. ALCUNE LINEE DI RIFLESSIONE DAL PUNTO DI VISTA DEL GENERE

Negli ultimi due decenni, gli esperti del marketing e i media si sono cimentati in una sfilza di attributi unilaterali e assoluti sulla cosiddetta “Generazione Z”: globalmente orientati, gender-fluid, anti-millennial, nostalgici, esperti, connessi, pluralisti, indipendenti, attivisti. Sebbene la Generazione Z comprenda molte di queste caratteristiche, la realtà è più complicata e sfumata di quanto non lascino intendere codeste etichette. Mentre ogni generazione porta con sé una nuova prospettiva, nuovi valori e modi di fare le cose, la Generazione Z, nata tra la fine degli anni Novanta e la metà degli anni Duemila, si profila come una generazione che capovolge il modo in cui comprendiamo concetti fondamentali che, fino ad ora, apparivano fissi nella psiche nazionale.

La Generazione Z ha vissuto la profonda frattura di elementi tradizionalmente costitutivi dell’identità. Nozioni di sesso, genere, etnia e famiglia sono ora aperti a una ridefinizione continua per tutta la vita, trasformata in supermercato delle identità. Dal transgenderismo, alla “scelta” della propria famiglia, l’identità cambia nel tempo.

La Generazione Z è costantemente sotto gli occhi del pubblico durante una fase chiave dello sviluppo personale. Spesso, ciò si traduce nel consolidamento e cura della propria “immagine” in giovane età e durante tutta l’adolescenza. Mentre altre generazioni possono ricordare un’epoca prima che ogni momento della vita fosse, almeno in potenza, video-trasmesso, questo è tutto quello che la Generazione Z conosce. Lauree, matrimonio, figli, acquisto della prima casa e “essere un uomo”: tutti i percorsi intrapresi (o meno) sono sempre più accettabili secondo i ritmi individuali, offrendo libertà di scelta ma anche scarso orientamento. La compressione dell’età - il concetto che gli adolescenti di oggi si comportano in modi tradizionalmente associati a quelli molto più giovani - espande l’infanzia agli anni dei giovani adulti. Nel frattempo, ragazze e ragazzi compiono scelte e decisioni da adulti su genere, carriera, posizioni sociali.

La Generazione Z si trova a percorrere percorsi incerti verso la sicurezza finanziaria. Assiste al declino del collegamento tra laurea e lavoro ben retribuito e la generale messa in discussione del valore di un’istruzione costosa rispetto all’ascesa della personalità di YouTube, approvata e ben pagata. I media sono cambiati considerevolmente nel corso della loro vita: sono lontani i giorni della manciata di canali TV, riviste e blockbuster che plasmavano la cultura. Con una quantità infinita di contenuti (molti dei quali generati dai loro pari), più scelte di piattaforme, interessi e argomenti di nicchia e un mondo sempre attivo, la Generazione Z vive in un'epoca in cui la cultura pop non è uno spirito del tempo condiviso ma, piuttosto, una scelta, una visione del mondo. Grazie alla connettività di Internet e dei social media, i gruppi di nicchia possono trovarsi e creare micro-comunità appassionate come quella delle “femministe pansessuali vegane”, a spese di un gruppo più ampio e diversificato di identità.

Per la maggior parte dei paesi occidentali, l’identità nazionale si è storicamente concentrata sull’importanza e la supremazia dell’individuo, insieme a nozioni di rispettabilità, nazionalità e mascolinità. Alcuni sostengono che, tra gli altri fattori, l’immigrazione e l’assimilazione di culture più collettiviste stia sottilmente alimentando una maggiore attenzione a comportarsi in conformità con le aspettative e il benessere del gruppo. L’intelligenza emotiva e l’enfasi sul rispetto dei sentimenti degli altri hanno messo in rilievo l’importanza dei sentimenti personali e delle proprie credenze sui “fatti” e la “verità”.

In un mondo che sempre guarda e registra, la vita di questa generazione è una “performance”: un mondo di “marchi personali”, “personalità” di YouTube e personaggi dei social media straordinari. La definizione della propria identità o “marchio” è un processo di editing continuo che richiede di provare pubblicamente diversi insiemi di sé. Ancora più importante, l’attenta cura e presentazione dei personaggi e profili pubblici è in contrasto con l’idea di avere un sé vero e autentico. Per quanto disposta a cambiare, la Generazione Z si aspetta di vedere la stessa apertura da parte dei marchi e degli influencer a cui tengono. Per questa generazione, avere un “sé” statico non ha senso nel mondo in continua evoluzione, istantaneo e sempre connesso in cui vivono. Il mondo lineare si è fratturato in un milione di pezzi. È globalizzato e frammentato, trasmesso, istantaneo, sempre acceso e sempre connesso. Laddove un mondo in continua evoluzione dice “adattati o muori”, la Generazione Z ha risposto trasformandosi in identity shifter. La tipica fase del “trova te stesso” degli anni adolescenziali e del giovane adulto dura per tutta la vita. Per la Generazione Z l’identità non è una destinazione, è un viaggio vissuto ogni giorno.

Pertanto, non sorprende che l’accento è sulla mutazione, sugli stati “trans”. La Generazione Z sfida etichette e identità fisse, spostandosi tra comportamenti e atteggiamenti contraddittori. Curatori esperti nell’unica cosa che possiedono interamente: come gli altri li vedono. Hanno una preoccupazione senza precedenti nel dimostrare pubblicamente il “sé” più adatto all’ambiente, il “sé” più appetibile per il gruppo. Forse non sorprende quindi che questa generazione sia nota per la sua empatia, inclusività e accettazione: proiettare il giusto "sé" significa essere in sintonia con i desideri e i bisogni degli altri. La Generazione Z ridefinisce la nozione di autenticità, reinterpreta la natura dell’identità e rinegozia il significato della realtà e della verità. Il risultato non è né buono né cattivo, di salvezza o condanna, e la nostra reazione al loro capovolgimento dell’identità è forse più un commento sulla nostra generazione che sulla loro.

Snapchat cattura l’immediatezza su cui prospera questa generazione, l’evoluzione tecnologica e l’immagine di sé costruita pubblicamente su Internet. La Generazione Z è cresciuta in mezzo a battaglie sessuali: la transizione pubblica di Caitlyn Jenner, James Charles primo modello maschile di CoverGirl, il rifiuto dei giocattoli di genere. Il coming out è un evento trasmesso sui social media, mentre la messa in discussione, etichettatura e identificazione del genere e della sessualità avvengono in età sempre più precoce. Si parla di genere e orientamento come di un costrutto: soggettivo, fluido e forse meno importante nel definire l’identità individuale di quanto si supponga.

La Generazione Z è stata presa nella trappola della definizione “gender fluid”. Tuttavia, i sentimenti sul genere sono molto più complicati. Alcuni avvertono una profonda tensione tra uno zeitgeist generazionale che evita le etichette e giudizi di qualsiasi tipo, insieme al proprio disagio e convinzioni discordanti. In privato, accettare generi (e orientamenti) non tradizionali non è facile per molti membri della Generazione Z. Nonostante questo disagio, la Generazione Z continua a sventolare in gran parte la bandiera del “sii te stesso” e ritiene che l’accettazione e la possibilità di scelta individuale siano fondamentali.

Mentre per adolescenti e preadolescenti la moda è sempre stata un modo di esprimere il proprio stile e affermare una certa indipendenza, i tutorial sul trucco di YouTube e gli influencer di Instagram ispirano la Generazione Z a esprimere un nuovo personaggio da un’occasione all’altra. Sono finiti i giorni in cui vestirsi costantemente e unicamente come un goth, un punk o un atleta. Il mantra generazionale “sii te stesso” si estende all’arena della moda, dove la Generazione Z naviga in più stili per abbinare le sue molteplici identità. Qualunque cosa si scelga di indossare, la decisione dev’essere guidata dalla propria versione autentica.

Il trucco e la moda non proiettano più solo un’immagine sessualmente attraente e come si vuole essere percepiti dagli altri, ma sono visti come dispositivi per lo storytelling e l’espressione del proprio marchio personale. Le norme di genere per l’uso del trucco stanno cambiando, portando alla luce nuove opportunità per la routine di bellezza quotidiana. Con un accesso più facile che mai alla scoperta di contenuti sempre nuovi, l’intrattenimento mainstream è fratturato e effimero. Le preferenze di intrattenimento della Generazione Z variano ampiamente e complicano l’identità. Sono finiti i giorni della cultura pop in cui si può scegliere cosa, quando e se interagire con le cose in un modo completamente diverso dai coetanei. Il nuovo mondo della cultura popolare è diventato di nicchia, con contenuti limitati che trovano successi mainstream travolgenti che “rompono l’Internet”, secondo il paradosso e vertigine della rottura della rottura espressa dall’hashtag #breaktheinternet.

RISULTATI DELLA RICERCA

La mia ricerca, che si è concentrata sugli attori della cosiddetta Generazione Z, ha fatto emergere alcuni risultati che, pur non avendo alcuna pretesa di esaustività – per cui sarebbe necessaria una ricerca sociologica empirica basata su un campione ben più ampio -, tendono a evidenziare alcune linee possibili di ricerca riguardo il rapporto tra Generazione Z, professione attoriale, industria dell’audiovisivo e rappresentazioni di genere in Italia. La mia ricerca ha registrato una difficoltà di accesso alle giovani attrici, che considero parte integrante dei risultati della ricerca, rispetto ai giovani attori maschi intervistati in numero anche maggiore da quanto richiesto dal progetto di ricerca. Pertanto, e anche perché le innovazioni più significative si riscontrano nell’ambito della rappresentazione di genere maschile, ho deciso di procedere, prima di introdurre i risultati della ricerca, con l’approfondimento, dal punto di vista della letteratura scientifica, del rapporto tra mascolinità contemporanea e moda.

Mascolinità contemporanee

I discorsi contemporanei sulla mascolinità, anche in Italia, sono informati dal trauma, il patologico e la dislocazione (nel tempo e nello spazio). La mascolinità è rappresentata come in difficoltà, “in crisi”, incapace di affrontare le dinamiche alienanti del capitalismo globale contemporaneo. Alla fine degli anni Novanta, la crisi della mascolinità è visibile in film come Fight Club (David Fincher, 1999), American Beauty (Sam Mendes, 1999) e una varietà di pubblicazioni. In un certo senso, questa “crisi” o, meglio, il discorso della crisi, è diventato egemone: crisi della legittimità del processo politico democratico, esperienza della guerra, effetti del terrorismo, forme culturali emergenti dal turismo globalizzato e reti digitali. Tutto questo e altro ancora fa tremare il terreno sotto le rappresentazioni della mascolinità, in particolare bianca. La storia è vecchia come la modernità. Già Freud aveva proposto che l’apparato psichico umano sviluppa uno scudo per difendersi dagli shock, sia in senso fisico che culturale, come teorizzato da Benjamin e Simmel, della vita moderna. Il soggetto maschile traumatizzato è un motivo ricorrente sia in America che in Gran Bretagna e Italia, in una gamma di rappresentazioni culturali che vanno dal veterano al soldato che soffre di stress post traumatico, al disabile, al teenager. In On the Move: Mobility in the Modern Western World, saggio che acquista particolare rilevanza a causa della crisi del movimento che attraversa la cultura globale contemporanea, Thimothy Cresswell rivisita il modo in cui il movimento è stato pensato nella cultura occidentale (2006), suggerendo che “mobilità” è una parola socializzata e spesso minacciosa. Ma il vero interesse di Cresswell è la modernità, una modernità fratturata dalla mobilità:

Modernity has been marked by time-space compression and staggering developments in communications and transportation. At the same time, it has seen on the rise of moral panic ranging from the refugee to the global terrorist. The celebrated technologies of mobility simoultaneously open up the possibility of an increasingly transgressive world marked by people out of place at all scales. (Cresswell 2006, pp. 20-1)

La sua teoria ruota intorno ai cardini della metafisica sedentaria e nomadica. La prima, ripresa dall’antropologa Liisa Makki, vede il predominio della logica e morale della fissità nello spazio e nel luogo, riaffermando la segmentazione del mondo in nazioni, stati e luoghi. Ma la tensione con la mobilità non si configura come opposizione tra località autentica e flusso spaziale artificioso, bensì come tensione irriducibile interna alla modernità, tra flussi di capitale, merci, persone, informazioni, e bisogno di controllare questa mobilità. D’altro canto, le parole associate alla mobilità oggi sono senza dubbio positive. Flusso, fluidità, sembrano disgregare, resistere, scardinare le forme egemoniche di soggettività, rappresentazione culturale e vita quotidiana. Fondamento ironico di un anti-essenzialismo che fa dell’anti-essenzialismo la sua nuova essenza. Questa figura della mobilità come forma di resistenza culturale, per esempio, si trova in Debord e De Certeau, anche se Cresswell rimane sospettoso rispetto al pensiero “nomade”. D’altro canto, una lunga tradizione di pensiero collega la mobilità alla visione e allo spettacolo, un tipo particolare di cultura visiva che nel XIX secolo ha posto il consumo dello spettacolo al centro dell’esperienza della vita quotidiana urbana, scardinando le divisioni tradizionali di genere.

Ascesa della cultura spettacolare ottocentesca e forme di cinema spettacolare sono al lavoro nella cultura contemporanea. Scott Bukatman, in Terminal Identity: The Virtual Subject in Postmodern Science Fiction (1993), aveva usato Male Fantasies (1978) di Klaus Theweleit per leggere la riemersione dell’immaginario del corpo maschile alla Terminator e RoboCop negli anni Ottanta. Il “corpo duro” o “corazzato” maschile è un corpo ansioso, i cui confini sono costantemente riaffermati nella muscolatura e nelle sequenze di azioni violente. Secondo Bukataman, la visibilità di questi corpi corazzati suggerisce una manifestazione della necessità di difendere sia il soggetto maschile che “lo Stato-nazione contro i crescenti flussi di capitale globale”. Un ritorno alle strategie rappresentative del corpo ‘costruito’ può essere visto nel film di Ridley Scott Il Gladiatore (2000), in cui il generale romano Maximus (Russell Crowe) diventa un gladiatore nel Colosseo a Roma, come nella serie televisiva Romulus (2020). Il Gladiatore esprime, riguardo la traiettoria da repubblica a impero, ansie simili a quelle che si trovano nei film di Bourne e nei prequel di Star Wars. In conclusione, in termini di mascolinità, la crisi è la nuova dominante. Una tale affermazione potrebbe suggerire, tuttavia, che c’è stato un tempo in cui le costruzioni della mascolinità nella modernità capitalista non erano turbate, in cui i soggetti maschili erano integri e non prodotti da strutture ideologiche, sociali e culturali contrastanti, o in cui gli uomini esistevano in un patriarcato incontrastato, non stratificato per classe o etnia.

La mascolinità italiana da una prospettiva storico-culturale

Per quanto concerne lo studio della mascolinità italiana, l’argomentazione a favore di una mascolinità polifonica è portata avanti dallo studioso John Champagne (Champagne 2015). Secondo Champagne, lo stereotipo del maschio italiano estroverso e volatile risalirebbe almeno ai tempi di Stendhal ma – rileva lo studioso - senza tenere in debita considerazione una cultura dello spettacolo pubblico la cui storia include il Carnevale, le processioni religiose, la commedia dell’arte e l’opera, Stendhal e i suoi compagni di viaggio ricorrono a un vocabolario essenzializzante per diagnosticare il carattere italiano e la sua presunta eccessiva teatralità, inclinazione tuttora perseguita, come evidenzia una lettura anche superficiale dei media italiani. Per Stendhal l’Italia non è la patria del machiavellismo o dell’estroversione superficiale, come spesso si pensa, ma il “ritrovo natale della passione” (Casillo 2006, p. 100).

Madame de Staël, scrivendo il suo romanzo del 1807 Corinne, ou L’Italie appena sette anni dopo che l’uomo spesso definito l’inventore del melodramma teatrale, l’autore francese René Charles Guilbert de Pixérécourt, ottenga i suoi primi grandi successi (Brooks 1995), colleziona un “impero” di stereotipi (Casillo 2006). Secondo de Staël, gli uomini italiani “mettono prontamente in gioco la propria vita per amore e odio, e i pugnali scambiati in questa causa non stupiscono né intimidiscono nessuno. Non temono la morte quando le passioni naturali richiedono loro di affrontarla” (Casillo 2006, p. 101) - e prosegue - “gli italiani sono indolenti come orientali [sic] nella loro vita quotidiana, ma nessun uomo è più tenace o attivo una volta che le loro passioni sono suscitate” (Casillo 2006, p. 102). Corinne, quindi, segue la sensibilità melodrammatica, impiegando i tropi della volatilità, della teatralità e, come de Staël insinua attraverso l’uso della parola “indolenza”, dell’effeminatezza. Duri a morire, questi tropi continuano a plasmare le interpretazioni della mascolinità italiana: i giornali non italiani hanno ribadito il legame tra uomini italiani e melodramma attraverso la figura di Silvio Berlusconi. Tali stereotipi sono ripetuti anche dagli italiani: i singhiozzi di Mario Cavaradossi, il padre istrionico di Titta in Amarcord di Fellini, i fascisti maligni e grotteschi di Salò.

Gli italiani fanno riferimento alla mascolinità melodrammatica come forma di autocritica, perché c’è una tradizione del lamentarsi nei discorsi sul carattere nazionale (implicitamente maschile) e la sua tendenza al melodramma. Il filosofo e politico dell’Ottocento Vincenzo Gioberti, per esempio, temeva che i napoletani avessero troppa «immaginazione, coraggio, entusiasmo appassionato, mobilità, pensiero lussureggiante, affetto e stile» (Patriarca 2010, p. 35). Attraverso la sua lettura del collega di Gioberti, Francesco de Sanctis, Suzanne Stewart-Steinberg sostiene che gli studiosi italiani maschi abbiano spesso criticato la “insincerità” del carattere italiano, la sua “mancanza di interiorità” che De Sanctis collega a “un sentimentalismo femminilizzato e femminilizzante, a una qualità retorica degli italiani che spezza il loro rapporto con la parola e li catapulta nel mondo melodrammatico della musica e dell’opera” (Stewart-Steinberg 2011, p. 15). Secondo Stewart-Steinberg, De Sanctis citerebbe anche “l’amore per lo spettacolo e il divertimento, il predominio della Chiesa”. Ripercorrendo la storia delle costruzioni del “carattere nazionale” dell’Italia, Silvana Patriarca mette in evidenza il riferimento denigratorio del poeta Giosuè Carducci agli italiani come “popolo di cicisbei” (104), essendo il cicisbeo “il nobile effeminato e indolente per eccellenza” (Patriarca 2010, p. 40). E, dopo la sconfitta dell’esercito italiano ad Adwa nel 1896, l’effeminatezza diventa “un tropo diffuso”, guidato sia dal riformatore educativo di destra che dall’ex garibaldino Pasquale Turiello (Patriarca 2010, p. 105) e dal fisiologo Angelo Mosso (Patriarca 2010, p. 103). Le risposte difensive alle percezioni della mascolinità italiana come inadeguate caratterizzano il periodo fascista, per cui lo stesso Mussolini si oppone alla rappresentazione dell’esercito italiano nel film statunitense Addio alle armi (Patriarca 2010, p. 138).

In questo contesto, è rilevante che lo storico George Mosse abbia osservato che la mascolinità europea moderna dipendesse da manifestazioni dell’affetto che costituivano l’antitesi del melodrammatico e che gli uomini italiani erano tipicamente esenti da questo requisito. “Il virile inglese o il tedesco mostravano la moderazione e l’autocontrollo così cari alla classe media” (Mosse 1996, p. 13), mentre “Mussolini usava il linguaggio del corpo come mezzo di comunicazione in modo teatrale del tutto estraneo ad Adolf Hitler, che l’avrebbe ritenuto sconveniente, se non effeminato”. Inoltre, le tendenze antiborghesi del fascismo italiano privilegiavano incarnazioni della mascolinità che sfidavano il cliché borghese. Ma l’eccesso di queste incarnazioni, come le statue di nudo che circondano il Foro Mussolini, minacciavano di affermare ciò che intendevano negare. Infatti, una delle contraddizioni della mascolinità occidentale è che l’eccessiva virilità può apparire effeminata o omoerotica. In sostanza, come prodotto di una serie di vicende storiche, le rappresentazioni del maschile italiano decostruiscono i binari di maschile e femminile, attivo e passivo e, più recentemente, omosessuale ed eterosessuale, posta la tendenza in Occidente a costruire, sin dal XIX secolo, una relazione tra genere e oggetto. L’ossessione della stampa popolare per le scelte di moda, i lifting e la liposuzione di Berlusconi - tentativi goffi di mantenere la bella figura di fronte all’invecchiamento - e le sue feste sessuali chiamate “bunga-bunga”, rappresentano l’Italia come luogo di licenziosità sessuale.

Forse la caratteristica più singolare della mascolinità italiana sono i suoi legami polimorfi tra sesso e genere, gli eccessi attribuiti agli uomini italiani che incrociano maschile e femminile, omosessuale e eterosessuale, che consentono accoppiamenti promiscui: il virile imperatore Adriano e il suo amante, l’efebo Antinoo, le cui immagini sono apparse in una collezione di Dolce & Gabbana; il ritratto del regista Derek Jarman della bisessualità maschile di Caravaggio; il Leonardo da Vinci di Freud come omosessuale passivo ed effeminato; l’immagine di Valentino, ossessionato da “voci sulla sua vita privata: omosessualità, impotenza, matrimoni non consumati con lesbiche” (Hansen 1986, p. 19); Marcello Mastroianni, quintessenza del latin lover, immagine stranamente in contrasto con le sue frequenti rappresentazioni dell’inetto, maschio passivo e incompetente (Reich 2004). Per gran parte della sua storia, l’uomo italiano è apparso “queer”, almeno rispetto alla sua controparte nordeuropea e americana. Quindi, per ragioni squisitamente storiche e culturali, le mascolinità italiane appaiono polifoniche. Tra queste, il culto del mondo classico del Rinascimento, il neoclassicismo modernista, il revival moderno dello sfarzo rinascimentale nell’esibizione sartoriale maschile in giostre, carnevali e pali, la tradizione della bella figura e, più recentemente, il marchio “made in Italy”, che ha promosso modi di vestire maschili italiani più “sgargianti” rispetto agli omologhi euro-americani. Anzi, si potrebbe dire che l’Italia è stato il paese che ha iniettato il germe della moda nel capo emblematico della modernità europea maschile, ossia il completo sartoriale, con Giorgio Armani, Gianni Versace e, prima, con il costumista de La dolce vita (Fellini, 1960) Piero Gherardi.

La mascolinità contemporanea dalla prospettiva della moda

In generale e nella discussione sullo “stardom” maschile italiano, la moda è una prospettiva quasi del tutto assente. Dato incredibile, data la centralità dell’industria della moda maschile italiana nel mondo, con Pitti Uomo a Firenze, le settimane della moda di Milano, e la rivoluzione del ready-to-wear maschile globale iniziata proprio dall’Italia, con la collezione Gucci Fall 2015 disegnata da Alessandro Michele, sotto la guida del CEO Michele Bizzarri. Alla luce della mercificazione e spettacolarizzazione della mascolinità contemporanea, credo sia necessario integrare le prospettive degli studi di moda con quelle degli star studies sulla rappresentazione della mascolinità, per collegare lo stardom locale alla cultura sia locale che globale, e capire come si articoli in relazione alla cultura commerciale dominante.

Uno degli effetti di questo cambiamento epocale è la femminilizzazione delle apparenze maschili e, se vogliamo, una conseguente e parallela mascolinizzazione della sfera, tradizionalmente connotata al femminile, del consumo. A partire dal dopoguerra, l’Italia promuove nel mondo, attraverso icone di moda come Marcello Mastroianni e Julian Kay di American Gigolò (Paul Schrader, 1980), stili di mascolinità nuovi, ambigui, “femminilizzati”, languidi, promiscui, passivi, che mettono in discussione l’identificazione univoca tracciata tra bellezza, Italia e star di sesso femminile (Gundle 2007).

Dagli anni Duemila a oggi, la moda maschile si configura come uno spazio in cui la mascolinità è esplorata attraverso la tattilità, la sensualità e l’esibizione erotica del corpo in un fisico “ideale” che differisce notevolmente da quello degli anni Ottanta e Novanta. In breve, il corpo maschile è al centro, sia letteralmente che figurativamente, della reinvenzione della moda maschile nel nuovo millennio. Parte integrante della nuova silhouette esiziale a cui Capasa, Simons e in particolare Slimane aprono la strada alla fine degli anni Novanta e all’inizio degli anni Duemila sono i modelli scelti per le loro sfilate e campagne pubblicitarie. In un’edizione Autunno/Inverno 2001 di Arena Homme+, un articolo intitolato “Le costole di Adamo” si chiede:

Chi mette lo slim negli spettacoli di Slimane? È una trasformazione per confondere Darwin […] il modello maschile si è trasformato in un animale molto più elegante. Sono finiti i tipi sorridenti, pomposi, tutti americani che hanno dominato gli anni Ottanta […] Al loro posto abbiamo il ragazzo magro europeo meno corpulento e più burbero. (Healy, 2001, p. 163)

Nella moda maschile contemporanea, il corpo mantiene questa posizione centrale: per l’Inverno 2015, Alessandro Michele da Gucci svela il busto maschile attraverso diafane camicie di chiffon, pizzi e uncinetto. A questo proposito, la teorica del cinema Laura Mulvey, nel suo saggio seminale Visual Pleasure and Narrative Cinema del 1973, ha scritto:

In un mondo ordinato dallo squilibrio sessuale, il piacere nel guardare è stato diviso tra attivo/maschile e passivo/femminile. Lo sguardo determinante del maschio proietta la sua fantasia sulla figura femminile che è acconciata di conseguenza […] la figura maschile non può sopportare il peso dell’oggettivazione sessuale. (1985 [1973], pp. 808-810)

Eppure, la figura maschile nella moda contemporanea è sicuramente arrivata a connotare quella che Mulvey definì “to-be-looked-at-ness”. Come e perché il corpo maschile alla moda si è sempre più assoggettato allo sguardo? E fino a che punto la ritrovata coscienza corporea della moda maschile porta con sé un peso di oggettivazione sessuale? Si tratta di uno sguardo femminile o, piuttosto, un venir meno dello sguardo sessualizzato? Il fascismo condusse la sua battaglia contro i desideri umani codificandoli con un particolare insieme di attributi: effeminatezza, insalubrità, criminalità, ebraicità (Theweleit, 1989 [1978], p. 13). Nella propaganda sia socialista che nazionalista nei decenni che precedono la seconda guerra mondiale, potenti figure maschili - spogliate fino alla vita - strappano catene, brandiscono martelli, stringono baionette o bandiere; così anche nelle immagini sportive, in cui gli atleti in atteggiamenti neoclassici tengono in alto il giavellotto, stringono i bicipiti o saltano. Ma nella moda, dai fluidi abiti tagliati in sbieco della fine degli anni Trenta alla clessidra del New Look di Dior del 1947, è il corpo femminile, molto più del maschile, il luogo dello sguardo desideroso.

Tuttavia, i profondi cambiamenti culturali e artistici - il caos scatenato nel periodo successivo alla prima guerra mondiale - hanno effettivamente lasciato spazio a espressioni di mascolinità alternative, trasgressive, radicali, che differiscono notevolmente da quelle idealizzate da un filosofo come Jünger. Nella scultura, nella coreografia, nella pittura e nella letteratura d’avanguardia degli anni Venti (così come nella cultura popolare), il corpo maschile è estetizzato ed erotizzato, soprattutto se inquadrato come esotico e primitivo. Una forma sensuale di incarnazione maschile - in cui i confini tra africano ed europeo, orientale e occidentale, “civilizzato” e “primitivo”, maschile e femminile si confondono - fondamentalmente antitetica agli ideali nazionalisti e patriarcali.

Il nazionalismo, che associa il corpo maschile allo stato nazione, dipende fondamentalmente da confini chiaramente delimitati che sono minacciati dall’ibridazione, dalla mescolanza, dalla guerra. Verso la metà degli anni Novanta, il modello di mascolinità desiderabile definito dalla muscolosità è stato sempre più sfidato dalla gioventù e dalla cultura alternativa: nella musica, da band come Suede e Placebo, con i loro frontmen androgini, pallidi e magri; su riviste come i-D, Dazed & Confused, The Face con i modelli “heroin chic”; e nel fashion design da figure come Raf Simons, Hedi Slimane, Ennio Capasa e Helmut Lang.

A cavallo del millennio, questo archetipo maschile snello e ambiguo è decisamente sotto i riflettori della moda, mentre i tabloid continuano a proporre svariate declinazioni del corpo “duro” degli anni Ottanta. Nel corso del decennio, nonostante il predominio di immagini di mascolinità muscolosissime nella cultura popolare tradizionale, l’archetipo di un uomo/ragazzo travagliato, etereamente bello ha riguadagnato valore nella cultura giovanile trasgressiva, nella musica indie, nelle riviste di stile e nei film alternativi. Nella musica, la modalità di incarnazione e di auto-presentazione di figure come Kurt Cobain dei Nirvana e Brett Anderson dei Suede si è deliberatamente differenziata dalle immagini della mascolinità desiderabile che ha dominato la moda e il cinema mainstream del periodo. E così anche la fotografia di moda di Corinne Day, Willy Vanderperre, David Sims e Collier Schorr, con la sua attenzione all’adolescenza, alla nudità, alla sessualità e al realismo sociale. Nei loro scatti si avverte un nuovo tipo di coscienza corporea, del tutto diverso dalle rappresentazioni più tradizionali. La forma di incarnazione snella e spesso androgina favorita in queste forme culturali alla moda, ma alquanto periferiche, indicava il rifiuto di una mascolinità patriarcale ortodossa a favore di qualcosa di più interrogativo, vulnerabile e caotico. Più vicino all’iconografia del Cristo in croce che a quella dei centurioni.

In termini psicoanalitici, queste figure magre ed effeminate rappresentavano una corporeità più caotica, carica di affetti, che si riferisce alla chora di Julia Kristeva e alla sua nozione di abietto (Kristeva 1974). Come Day e Vanderperre (Vanderperre et al., 2003), l’ultimo dei quali ha collaborato a lungo con Simons, la liminalità, l’imbarazzo e la fragilità dei modelli non professionisti magri e “eccentrici” sono parte integrante di un messaggio che tematizza l’adolescente alienato. Nella collezione “Black Palms” di Simons per la Primavera/Estate 1998, i primi modelli a procedere lungo la passerella in cemento erano a torso nudo, con i palmi neri del titolo tracciati sulla schiena, ad attirare l’attenzione sulle scapole sporgenti, sulle vertebre e sugli archi cavi delle loro schiene. Ma alla fine degli anni Novanta il fisico flessuoso e spigoloso dei modelli di Simons era al di fuori dell’estetica tradizionale.

E non era solo la forma del corpo maschile a cambiare. Cambiava anche il modo in cui quel corpo era incorniciato dai vestiti. Tessuti morbidi, drappeggiati e fluidi accarezzano ora la pelle dei modelli, suggerendo una forma di mascolinità più sensibile, sensuale e incarnata. E questa rinuncia alla mascolinità egemonica nel mondo della moda maschile si collega a un cambiamento culturale molto più ampio nei primi anni del nuovo millennio.

A questo proposito, il sociologo Eric Anderson, che ha condotto un lavoro sul campo etnografico tra giovani uomini britannici e americani tra il 1999 e il 2004, ha riscontrato cambiamenti sorprendenti e inaspettati nelle identità maschili in corso durante questo periodo, poiché i giovani hanno abbracciato sempre più identità più affettuose, diverse, meno delimitate dal sessismo e dall’omofobia, e in cui sono stati in grado di impegnarsi in comportamenti storicamente classificati come femminili. Egli afferma: “mentre le espressioni di genere codificate come femminili erano in via di estinzione negli anni Ottanta, oggi fioriscono” (2009, p. 97).

I corpi “androgini” celebrati da Slimane e Simons, pur coesistendo con rappresentazioni più ortodosse del genere, offrono la possibilità di modalità di soggettività nuove e talvolta “trasgressive”. Nel frattempo The Boy, della femminista e critica letteraria Germaine Greer (2007), esplorava le rappresentazioni della bellezza maschile nell’arte classica e rinascimentale attraverso il prisma dell’infanzia. E Raf Simons collaborava con il curatore Francesco Bonami alla produzione di un volume intitolato The Fourth Sex: Adolescent Extremes, che accompagnava l’omonima mostra, sempre con un focus sulle fragili mascolinità adolescenziali.

Greer scrive come la figura del “ragazzo” minacci di interrompere le relazioni patriarcali:

Ogni maschio che sopravvive all’infanzia deve accettare di annientare il ragazzo in lui e limitarsi all’ambito più ristretto a sua disposizione nella società patriarcale. (2003, p. 28).

Anche Simons e Bonami vedono l’adolescente come appartenente a un “quarto sesso” in cui “libertà e leggerezza si combinano” e l’identità “esplode” (2003, p. 12). Secondo la fotografa di moda Collier Schorr:

La pressione a non rappresentare le donne negli anni Ottanta era così forte da dove venivo. Mi sentivo come se ci fosse un vero problema con il modo in cui le donne erano state confezionate e rivendute alle donne […] Quindi qualsiasi ansia, desiderio o aggressività sentivo di indirizzarla verso i ragazzi. (Schorr, 2014)

Questa celebrazione dell’indeterminatezza e della vulnerabilità giovanile, che rappresenta un insieme di soggettività spesso negate agli uomini, si trasforma facilmente in uno sguardo feticista.

Alla fine del decennio, nel contesto dell’alta moda queste rappresentazioni sono diventate dominanti, suggerendo una differenziazione della mascolinità secondo linee di “distinzione” (Bourdieu 2001) di classe, oltre che di appartenenza di genere. Nell’ultimo decennio sembra essere emerso un genere di fotografie di moda in cui i modelli maschili - quasi sempre magri, bianchi e molto giovani - sono raffigurati spesso in uno stato di parziale svestizione e coscienza, accasciati, con lo sguardo timido o tristemente fisso alla macchina fotografica (Harris e Irvine 2013; Rubchinsky e Spence, 2013, pp. 188–205).

La vulnerabilità dei modelli e delle modelle sembra essere un elemento intrinseco nell’economia del desiderio. La desiderabilità e l’erotismo sembrano fondarsi sull’inerzia, la fungibilità e (se non la violabilità) la vulnerabilità implicita dei modelli. Inoltre, l’androginia e la trasgressione della mascolinità normativa sembrano trovare spazio nella nostra cultura solo se incarnate da un ragazzo. Cosa succede ai giovani belli e dannati che non riescono a consegnarsi all’oblio prima di svanire? Quali immagini culturalmente sancite di mascolinità alternativa esistono per coloro che non sono più giovani, che ingrassano o perdono i capelli? Ogni discorso sull’inclusività è bandito dalla cultura estetica maschile, con un senso di alienazione per gli uomini che devono o consegnarsi all’annullamento della mascolinità ortodossa, o essere visti come tristi e sbiadite figure.

I teorici della moda che hanno familiarità con il contesto dell’Asia orientale, in particolare Yumiko Iida (2005) e Masafumi Monden (2015), suggeriscono che questo ideale corporeo adolescenziale molto sottile sia diventato mainstream in Giappone prima che in Occidente e ci si potrebbe chiedere se le rappresentazioni giapponesi abbiano esercitato un’influenza sul contesto europeo. Ci sono anche significative intertestualità tra questa forma di incarnazione alla moda e la figura del giovane gay glabro e magro che, come hanno descritto Filiault e Drummond, ha guadagnato popolarità come tipo riconoscibile all’interno della cultura gay nei primi anni anni 2000 (2007, pp. 179–181). Infine occorre sottolineare come, nonostante la visibilità di questi ideali fisici alternativi, i discorsi accademici tendano a ignorarli.

Forme dell’attorialità mediale contemporanea. Formazione, professionalizzazione, discorsi sociali in Italia (2000–2020) da una prospettiva di genere

Traiettorie personali: una vocazione lombrosiana

Dal punto di vista delle traiettorie (Bourdieu 2022) personali dei giovani attori italiani oggetto della mia ricerca, e del “modo di produzione” (Beller 2006), nonostante sia incline a non considerare la realtà italiana come pienamente industriale, ma più come una serie di pratiche più o meno codificate, istituzionalizzate e a vocazione artigianale, dalla ricerca emerge che l’avvento delle piattaforme digitali in Italia e la conseguente intensificazione della domanda di contenuti, ha determinato una richiesta maggiore di attori per prodotti seriali rivolti a un pubblico “teen”.

Come confermato dalla casting director Laura De Strobel, da me intervistata nel contesto della ricerca, negli ultimi due decenni la domanda italiana di contenuti seriali è aumentata, determinando una maggiore richiesta di giovani attori che, secondo De Strobel, per forza di cose devono essere presi anche “dalla strada”, secondo una pratica che l’industria cinematografica e televisiva definisce di “street casting”. Lo “street-casting”, che negli ultimi anni si è diffuso anche nell’industria della moda, consiste nella ricerca di nuovi volti non necessariamente professionisti e non appartenenti al campo dello spettacolo al fine di soddisfare specifiche esigenze creative.

La modalità alternativa più diffusa di reclutamento è il “self-tape”, un provino mediato dallo schermo del telefono che l’attore deve organizzare in autonomia. La pratica del “self-tape” ha ricevuto un incremento a causa del lockdown nazionale da pandemia, per poi restare e istituzionalizzarsi a causa della sua economicità e versatilità. Gli attori, soprattutto i non-professionisti, comprensibilmente la mal sopportano perché, a loro dire, li priverebbe della “magia” dell’incontro in presenza col regista. Alcuni attori citano come determinante nel provino, non tanto la loro abilità nella recitazione o improvvisazione della scena, quanto la presenza fisica e il volto. Comunque, il “self-tape” non ha sostituito il provino dal vivo, svolgendo una funzione di scrematura e di allargamento del bacino potenziale di performer. Questo fenomeno ha favorito, con ritardo rispetto all’industria americana, l’emersione di una figura professionale specializzata nuova nel panorama italiano, a prevalenza femminile: il casting director.

Sebbene, a prima vista, la maggiore richiesta di giovani attori per prodotti “teen” costringa l’industria cinetelevisiva allo street-casting, come spiegazione non mi sembra del tutto soddisfacente, alla luce dei risultati della mia ricerca. Infatti, la lunghezza, il costo e la laboriosità degli street-casting non giustificherebbero una pratica che, dal punto di vista produttivo, è assai dispendiosa, come il caso de La Paranza dei bambini (Claudio Giovannesi, 2019) ha evidenziato. A mio parere, sarebbe forse più opportuno considerare questa pratica come parte di una estetica particolare, collegata a un tipo di pubblico, un modo di produzione, una ideologia dello spettacolo, in definitiva una cultura cinematografica che meriterebbe di essere esplorata.

La pratica dello street-casting fa sì che molti attori della Generazione Z vengano selezionati sulla base di alcuna previa esperienza teatrale e di recitazione. Secondo De Strobel, questo è normale perché a quell’età non si può essere già “attori”. Spiegazione anch’essa plausibile, ma solo finché non si considera l’eventualità che le produzioni possano scegliere di provinare giovani attori diplomati in accademia per interpretare un giovane adolescente. Secondo un attore da me intervistato, questo costringerebbe le produzioni a dover pagare di più l’attore professionista. Secondo lo stesso attore professionista, sarebbe per lo stesso motivo che l’industria italiana non ha alcun interesse a favorire la nascita di uno star system che farebbe lievitare i costi cosiddetti “above the line”.

Per quanto riguarda la formazione dei giovani attori oggetto del focus group, è possibile dividere i loro percorsi di provenienza in cinque principali categorie: presi dalla strada, che hanno incontrato il teatro come terapia psicologica, attori “per caso”, attori accademici (diplomati) e modelli di moda. Nel primo caso si tratta di attori “presi dalla vita” trovati dai casting director nella loro attività di ricerca; nel secondo caso la scuola o lo psicologo consigliano all’adolescente problematico di seguire un corso di teatro, esperienza che lo “folgora”, per cui decide di perseguire la professione e per cui, di solito, è “scoperto” da un casting; nel terzo caso si tratta di attori che partecipano a casting per caso, su suggerimento di genitori di compagni di scuola, a dimostrazione che quella dell’attore è divenuta una professione desiderabile, decorosa e legittima all’interno della classe media italiana, mentre è del tutto assente dall’orizzonte sottoproletario; nel quarto caso di tratta di attrici che hanno cominciato presto a sfilare come modelle di moda, a dimostrazione che l’aspetto fisico “da modella” è di grande importanza.

Ma sia nel caso di attori professionisti che nel caso di attori non-professionisti, occorre evidenziare che i casting cinematografici, sia maschili che femminili, relativi agli attori presi in considerazione, avvengono immancabilmente per il “volto”. Sarebbe a dire che il performer deve incarnare il più possibile nell’aspetto, nel fisico e nella personalità così come appare, il “personaggio” del film, finendo per “recitare” sé stesso. L’idea alla base di questa pratica è che “fare sé stessi” renda gli attori più credibili per il pubblico, rispetto a una recitazione che rischia di essere percepita come “falsa”. Da qui, la necessità di un “acting coach” che li disinibisca e in fretta. Infatti, la velocità delle produzioni televisive ha determinato l’esigenza di pratiche di personal coaching volte a togliere timidezza all’attore, facendo in modo che appaia, davanti alla camera, il più “naturale” possibile nel meno tempo possibile. In questo senso, l’uso del dialetto è privilegiato, perché conferisce alle scene interpretate un maggiore realismo, rispetto a un italiano corretto ma “finto”, perché non parlato nella realtà da nessuno. Interessante notare come, in alcuni casi, gli attori non-professionisti decidano di perseguire la carriera attoriale, “scoprano il cinema”, affidandosi poi a delle vere e proprie agenzie. In questo caso il cinema, più che mezzo di rappresentazione della realtà, finisce per produrla, diventando un vero e proprio mezzo di riscatto sociale. Il fatto che gli attori siano scelti per il “volto”, che incarna un tipo sociale, li porta alla preoccupazione di dimostrare, già dalla seconda prova attoriale, che sono versatili, in grado di fare di più che recitare sé stessi. Necessità collegata anche alla crescita anagrafica, che gli impedirebbe di recitare a lungo ruoli da “teen”. Ma questo desiderio passa sempre per il corpo, per la disponibilità alla metamorfosi dell’aspetto fisico. In realtà, la tendenza dell’industria, a detta degli attori intervistati, sarebbe di provinarli sempre per affidare loro gli stessi ruoli, pratica nota come “type-casting”, in cui possono seguitare a interpretare sé stessi. Su questo sono stati tutti molto chiari.

Mentre la preoccupazione degli attori maschi è di rimanere ingabbiati in una classe sociale, nel tipo “proletario”, nel tipo “borghese”, nel caso delle giovani attrici, esse lamentano la “deriva” verso il ruolo di “giovane e bella”, al dì là di eventuali necessità drammaturgiche. Dai discorsi sociali, e curiosamente data la tradizione italiana delle dive maggiorate (Gundle 2007), la bellezza è vista in contrapposizione e conflitto all’abilità attoriale, come qualcosa di potenzialmente sminuente perché l’unica che si richiede loro. Si riscontra anche una tendenza, di cui alcuni attori sembrano consapevoli, a far lavorare di più le attrici in età più giovane, rapporto che, rispetto ai maschi, sembra capovolgersi superata una certa soglia di età. Questo spiegherebbe perché, come ha sottolineato la studiosa Catherine O’Rawe (2014), lo stardom italiano contemporaneo sia a dominante maschile, e confermerebbe quanto dichiarato dalle attrici, costrette spesso a interpretare al cinema il ruolo di “figlie di”.

Maschi fragili, ragazze giovani e belle

Per quanto riguarda gli attori maschi, sia dai film che dai discorsi sociali emerge un modello di mascolinità “fragile”, rilevato anche dai media e dagli studiosi di mascolinità. Interessanti le deviazioni da generi consolidati. Per esempio, il melodramma teen italiano non finisce mai con un ritorno a casa della coppia di giovani etero, ma sempre con la ricostituzione di una sorta di utopia omo-sociale dal futuro incerto (Evan Paul, 2019). I melodrammi teen italiani privilegiano i protagonisti maschili e la loro esperienza di maturazione, mettendo al centro la lotta maschile per diventare adulti. Il cinema per ragazzi italiano propone forme innovative di mascolinità attraverso i suoi protagonisti maschili, che spesso si appropriano di aspetti della femminilità come la cura e la disponibilità emotiva. Queste forme di mascolinità codificano i giovani uomini come intrinsecamente danneggiati, ma consentono al pubblico femminile del genere di “compiangere” gli uomini feriti in modo che possano essere successivamente recuperati nella società normativa.

Un tropo comune, sebbene non costante, del modo melodrammatico come codificato nel genere p.e. dal cinema americano, è la sua tendenza ad allontanarsi da uno spazio di innocenza che è spesso caratterizzato dal focolare e dalla casa. Affinché un melodramma si concluda felicemente si impone la centralizzazione della coppia eterosessuale o della famiglia etero-normativa composta da marito, moglie e figlio/i in un apparente ritorno allo spazio dell’innocenza da cui il percorso narrativo era partito. Il film per adolescenti italiano pare sovvertire il tradizionale lieto fine eterocentrico del melodramma privilegiando il legame maschio-maschio, il padre surrogato, e il desiderio omosessuale. Tra l’altro, i ruoli di personaggi affetti da disabilità sono benvenuti perché consentono agli attori, oltre a mostrare le loro fragilità, che “sanno recitare” (Giulio Pranno “autistico” nel suo esordio di attore con Gabriele Salvatores, Luigi Fedele in Quanto Basta, per esempio). Bisognerebbe avere il riscontro di un maggior numero di film per affermarlo con certezza, ma dalla ricerca sembra che l’unico modo per un giovane maschio italiano al cinema di provare una qualche forma di sentimento considerato “femminile” sia essere disabile (anche in senso metaforico) o avere a che fare con qualche disabilità.

È sintomo di rivolgimenti sociali e nuovi desideri che attraversa l’Italia delle nuove generazioni, che nel futuro dei film presi in considerazione la presenza della famiglia e le giovani donne di sesso femminile semplicemente non esistano. Nelle storie di formazione adolescenziale, le ragazze interpretano spesso figure di supporto al maschio “fragile”, figure di ascolto, a volte di adorazione che, quando hanno espletato la funzione principale di provare la virilità del protagonista, di solito attraverso l’atto sessuale, possono tranquillamente scomparire. Rispetto ai giovani attori, essi “diventano grandi” grazie alla interpretazione di ruoli “virili”, caratterizzati per esempio dalla violenza e dalla esibizione di forza fisica. Per esempio, Francesco di Napoli “diventa grande” dopo aver interpretato Wiros, nella serie televisiva Romulus. Nei film si riscontra anche la rappresentazione ricorrente di un legame forte con la madre, di cui l’adolescente maschio si prende cura, sostituendosi al padre assente, non senza ambiguità.

Al polo “adulto”, tradizionalmente associato al genere maschile (Bourdieu 1998), si contrappone nei discorsi sociali di genere il polo “bambino”, associato alle giovani attrici. In questo caso, l’ingresso nella categoria di “donna” può passare per l’esplorazione della sensualità. Le attrici oggetto della ricerca si caratterizzano per una immagine di “innocenza”, con la rivendicazione del disinteresse per gli strumenti della bellezza femminile come trucco e moda. Durante un’intervista, una giovane attrice ha citato ripetutamente, riferendola a sé stessa, la parola “piccolina”, ma questa auto-percezione sminuente non sembra ripetersi nel caso per esempio di attori della stessa età di sesso maschile. Un’altra giovane attrice, nel corso di un’intervista, segnala invece una percezione di mancanza di rispetto sul set nei suoi riguardi a causa della sua giovane età: “Qualcuno (che) sembra dirti: ‘ragazzina, abbassa lo sguardo, sei troppo giovane’. Se accade mi incazzo.” - riferisce l’attrice - “non voglio essere considerata un’adulta e non so neanche se una ragazza di 23 anni possa essere considerata una giovane donna, però so che l’età sul passaporto, nel mio mestiere, te la controllano solo in Italia, e che se sei giovane e poni un dubbio sul set sei spesso considerato capriccioso. Io non sono capricciosa. Chiedo solo lo stesso rispetto che do agli altri.” Da una prospettiva di genere, dice Bourdieu, il polo “bambina” è tradizionalmente collegato a quello di “donna” (Bourdieu 1998).

Dal punto di vista dello star system, in seguito alla pandemia da Covid19, è emerso sulla stampa periodica italiana un discorso relativo al “nuovo star system” italiano lanciato dallo streaming che, più che certificarlo, lo invoca. I media hanno espresso la necessità e hanno anche provato, attraverso interviste e scatti editoriali di moda, a costruire una immagine glamour di alcuni giovani attori italiani emergenti. In questo, la strategia di marketing del marchio del lusso Gucci ha avuto un ruolo centrale. Anche se uno star system non può essere creato unilateralmente dai media di moda, si registra una maggiore disponibilità da parte della Generazione Z italiana, rispetto agli attori più o meno affermati delle generazioni precedenti, a rappresentarsi tramite l’alta moda o a figurare come testimonial, sempre però nel solco del valore supremo dell’ “autenticità”, dell’espressione di sé anche attraverso la moda. Accanto a questo, si segnala la quasi totale assenza dal panorama spettacolare italiano degli ultimi anni di attori e attrici di colore o comunque di origine straniera, e appartenenti a generi non-conformi. Quindi, l’attore italiano rimane sostanzialmente bianco e prestante, con la macchina da presa che indulge spesso sul corpo muscoloso ma acerbo dell’adolescente come “promessa di virilità”. L’attrice italiana, d’altro canto, è bianca al limite del pallore, castana e con un fisico da modella.

In generale, l’orizzonte di carriera e l’aspirazione degli attori della Generazione Z, e comprensibilmente, è verso l’autoriale, la serie A del cinema. Per cui si impegnano da subito a costruirsi, anche nelle interviste da me realizzate, una immagine coerente con questa prospettiva “di prestigio”. Se hanno fatto la fiction per Rai o Mediaset tendono a nasconderlo, anche dal curriculum vitae, e lamentano la eccessiva dipendenza dal “mercato” della nostra industria, una scarsa disposizione al rischio, alla sperimentazione di storie nuove che abbiano maggiore rispetto del pubblico, anche più giovane, senza inginocchiarsi ai gusti del “mercato”. Gli attori modello più citati sono Elio Germano, Toni Servillo, Monica Vitti e Gian Maria Volonté.

Da notare l’emersione di una inedita prospettiva di formazione e carriera internazionale. Alcuni degli attori presi in considerazione, prima del lockdown, si stavano accingendo ad andare a studiare all’estero. Vogliono imparare l’inglese per poter recitare in produzioni internazionali. Inoltre, già dalle prime prove, dimostrano grande consapevolezza e un rifiuto culturale del modello divistico per sposare una idea ambigua di “mistero” che dicono di voler mantenere, anche quando non sono ancora noti al pubblico, ma che costruiscono artificiosamente e attivamente, per esempio togliendosi dai social o non parlando mai della vita privata. Pensano che se lo spettatore ti vede sempre fuori dallo schermo, come con Fedez, al cinema non creda più al personaggio. In sostanza, la preoccupazione è di fuggire l’immagine di sé stessi, limitandone la visibilità, per poter avere più chance drammaturgiche. E vogliono diventare famosi come conseguenza della loro arte, non come influencer o modelli di moda. L’obiettivo di carriera, consapevole, è di partecipare a film autoriali di qualità. Tutti gli intervistati hanno vinto il premio Biraghi, o qualche premio analogo, come miglior attore emergente. Il ruolo dei premi non è di far avanzare la carriera, ma ha una funzione di legittimazione culturale e di certificazione d’esistenza, dato che i film presi in considerazione hanno spesso un pubblico trascurabile.

Si riscontra anche una certa separazione tra carriera di attore per il cinema, fiction televisiva (si parla di volto “da fiction”) e influencer, venata di pregiudizi, per cui chi è influencer è considerato un attore fallito (lo fa perché non trova lavoro), e il volto “da fiction” trova forti resistenze culturali a proporsi per ruoli cinematografici. Comunque, l’attività di influencer sembra incompatibile con l’esercizio della professione “seria”. Si capisce come, se il modello è Toni Servillo, come spesso è, non può esserci spazio per uno stile di vita da celebrity secondo le categorie individuate da Richard Dyer in Star (2009). Quando il film riscuote un successo critico (la frase “è andato a Venezia” per dire che si è recitato in un film artistico è ricorrente) e incrocia i discorsi egemoni della contemporaneità sul “genere”, come nel caso de La paranza dei bambini, i media di moda e beauty, affamati di volti nuovi e contenuti in linea con il discorso egemone, usano questi attori come volti nuovi per editoriali e pubblicità, secondo una modalità piuttosto tradizionale collegata alla singola uscita. Al di fuori dell’uscita del film o della serie televisiva, questi attori raramente hanno vita mediatica, tranne attori influencer come Alice Pagani e Lorenzo Zurzolo. Inoltre, com’è emerso dal focus group, tendono a negarsi e a essere molto selettivi riguardo i progetti cinematografici in cui sono coinvolti, rifiutando anche contratti pubblicitari cospicui per “non vendersi” o essere percepiti come influencer. Le loro agenzie social e stampa per questo motivo li criticano, dato che le agenzie guadagnano sui progetti e gli uffici stampa hanno come obiettivo di farli “uscire” sui media. In generale, gli attori dichiarano di accettare sponsorizzazioni moda o altro solo se “di sostanza”, coerenti con il loro percorso artistico, o da brand in assonanza con il discorso egemone, come Gucci, all’avanguardia del discorso sul gender, anche perché lo ha sdoganato. Da cui il successo delle collaborazioni con Gucci che può contare su alcuni di questi attori come testimonial del marchio.

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