Haroun Fall come Sharif

Intervista a Haroun Fall

SILVIA VACIRCA 16 SETTEMBRE 2022

Per la serie di interviste dedicate agli attori italiani emergenti (focus group), appartenenti alla cosiddetta “Generazione Z”, volte ad analizzare le pratiche che determinano la validazione professionale dell’attore nei discorsi sociali da una prospettiva di genere, abbiamo intervistato Haroun Fall, celebrato attore della serie televisiva Zero (2021), nata da un'idea dello scrittore Antonio Dikele Distefano.

Haroun Fall per 'Man in Town'

"Ultimamente, le persone dimenticano che il cinema è un’arte e ha un aspetto culturale. Non si tratta semplicemente d’immagine...

…Se consideriamo una donna straniera che lavora nel cinema, la difficoltà raddoppia. Ma non parlo solo delle persone di colore. Parlo di persone cresciute in Italia, con la nostra cultura, che non hanno alcuna possibilità di inserirsi nell’industria cinematografica perché non c’è la narrazione. Questo è il motivo per cui ho dovuto e devo ancora accettare numerose interpretazioni fuori ruolo. La descrizione fisica dei personaggi che i registi e i casting director cercano spesso non corrisponde alla mia fisionomia."

In che senso? 

Nel senso che anche se stanno cercando un ragazzo biondo con gli occhi azzurri di nome Stefano Rossi, scelgo di presentarmi comunque al provino affinché il regista possa cambiare idea. È successo con il film Space Monkeys, che non è ancora uscito. Il protagonista Stefano Fiorelli era stato immaginato per un tipo completamente diverso da me: non di seconda generazione, non nero. Ma poi il regista si è convinto che potessi essere Stefano.  

Vorrei che ripercorresse un po’ il suo percorso di vita, in particolare vorrei pensasse alla sua infanzia… 

La mia storia è un po’ complicata. Sono nato nel 1995 a Torino. A otto mesi sono stato affidato senza aver mai conosciuto la mia madre biologica, di nazionalità italiana, mentre il mio padre biologico è di nazionalità senegalese. Sono stato affidato alla mia attuale famiglia adottiva, con cui sono cresciuto per i primi otto anni della mia vita. A un certo punto il Tribunale dei minori ha deciso di reinserirmi in famiglia e, quindi, sono tornato dal mio padre biologico. Dopo di che sono stato ospite di una comunità. I miei genitori adottivi non sapevano dove fossi, mi hanno trovato dopo un anno. Questo percorso fatto di tribunali e di famiglie diverse ha causato in me una sensazione di iperattivismo, di continuo movimento, di ricerca della mia identità, della mia cultura e delle mie origini, per cui ho anche affrontato una terapia psicologica. Alle medie mi sono iscritto a un corso di teatro dove i docenti del liceo del Teatro Nuovo di Torino - che oggi si chiama liceo Germano Erba - mi hanno notato. All’inizio ho recitato in Aspettando Godot, avrò avuto tredici anni, e subito dopo nello spettacolo teatrale I promessi sposi, dove facevo uno dei Bravi. Una docente del Teatro Nuovo mi propose di fare un’audizione al liceo teatrale, l’unico in Italia a dare una formazione accademica. Si frequenta per cinque anni dalle 8 alle 17, più le prove, si studiano le materie normali e le materie di indirizzo per lo spettacolo. Il liceo ha due indirizzi: teatrale e coreutico. Il teatrale comprende recitazione, dizione, movimento corporeo, danza e canto. Il primo anno sono stato bocciato per motivi di condotta ma il mio percorso artistico comincia da lì. A un certo punto la Rai è venuta a fare i casting per alcuni programmi di Rai Gulp, con Alessandra Comazzi, e sono stato scelto per I criticoni. Ho anche partecipato a School Rocks, una sorta di Amici per ragazzi più piccoli. Da quel momento sono entrato nell’idea di recitare davanti alla camera, oltre che a teatro. Sono l’unica persona nera nella stanza dall’inizio della mia vita, volevo esprimermi attraverso lo spettacolo e, soprattutto, portare avanti un’ideologia rispetto alle mie origini, alla mia cultura e alla mia estetica. Di conseguenza, dopo il liceo ho deciso di fare un’audizione in tutte le accademie teatrali d’Italia. Tutte. Sono entrato allo Stabile di Torino e alla Bernstein di Bologna, ma ho rifiutato perché le ritenevo realtà troppo provinciali, e sono andato a Roma. Alla D’Amico mi hanno scartato perché avevo scelto l’ultima scena dell’Otello e mi hanno detto che ero troppo giovane per interpretare quel personaggio. A quel punto non avevo più nulla in mano, così ho provato al Centro Sperimentale con l’idea di dover entrare a tutti i costi. Credo fortemente nel percorso accademico, che consente di arrivare a un livello di eccellenza.  

In tutto questo che ruolo ha avuto la sua famiglia adottiva? 

I miei genitori sono le persone che più stimo perché hanno creduto in quello che volevo fare. Facevo il cameriere in una pizzeria di Piazza Navona per mantenermi le audizioni. I miei genitori mi avrebbero aiutato ma per fare le cose che volevo fare - andare a Londra a vedere i musical, vivere da solo, affittare delle sale prove per prepararmi - non potevo chiedere ai miei. Un giorno mi sono presentato a un’audizione al Maxxi di cui non sapevo quasi nulla. Appena arrivato mi dicono che non potevo partecipare perché non ero iscritto. Allora mi sono seduto, era l’una del pomeriggio, e sono rimasto al Maxxi fino alle otto di sera. Alle sette e trenta sono andato a chiedere di aggiungere il mio nome in fondo. Alla fine mi hanno fatto passare e lì ho conosciuto Luca Rubenni, il mio agente di Promoter Artist, e Valeria Miranda, una casting importante. Al provino avevo portato il monologo motivazionale di Leonardo Di Caprio del film The Wolf of Wall Street. Volevo creare una contraddizione tra essere nero e ricco. Volevo far vedere in Italia un attore nero che fa una persona completamente diversa da come la immaginiamo. Dopo aver vinto il Roma Creative Contest del Maxxi, mi hanno convocato al Teatro Vittoria di Testaccio per dirmi che il premio era l’ingresso nell’agenzia Promoter Artist. Una volta in Promoter ho fatto il provino al Centro Sperimentale, che è andato bene. In giuria c’era Giancarlo Giannini che ha deciso di accettarmi e così sono diventato il terzo studente nero dal 1945 a entrare al Centro Sperimentale. E al secondo anno mi hanno scelto per la tournée teatrale dello spettacolo di Giuseppe Marini, La Classe, con cui ho fatto 40 repliche al Marconi e 70 in giro l’Italia.  

Secondo lei, gli attori italiani come si relazionano al mestiere di attore?  

Penso che in Italia ci siano attori straordinari. Molti di essi hanno capacità enormi ma non sono valorizzati perché il mercato ha necessità differenti. Però ogni tanto mi accorgo che qualcuno lo fa giusto per farlo, che per me non è plausibile anche guardando al mercato estero, francese, russo, inglese o americano. Il nostro è un lavoro.  

Le pare un atteggiamento amatoriale?  

È un atteggiamento che ignora i bisogni del pubblico. L’importante è fare un prodotto e venderlo, la qualità del prodotto si vedrà. Inoltre, gli attori non sono messi nelle condizioni migliori perché la sceneggiatura arriva un mese prima, con cambi all’ultimo momento, oppure ai provini non hai la sinossi e non puoi fare un lavoro di arco.  

Ha mai fatto provini internazionali?  

Ho provato per Il libro della giungla, un musical a Parigi, per conoscere la situazione del mercato. Non sono stato scelto perché il livello degli attori era incredibile. Noi facciamo intrattenimento e serve una certa preparazione per affrontarlo. Adesso ho un ruolo nella serie straniera Concordia, diretta da Barbara Eder.

E in Italia?

Nel 2016 ho partecipato al primo videoclip di Elisa, No Hero, come protagonista, che mi è servito moltissimo perché lo hanno visto trentasette milioni di persone, e a una serie di videoclip con Mauro Russo, fino alla sua opera prima uscita sulla piattaforma Amazon Prime, un film sperimentale. Ho creduto in Mauro perché prova a fare un genere che in Italia non esiste. Nel 2018 ho preso parte al film Arrivano i prof, distribuito da 01 Distribution, diretto da Ivan Silvestrini.   

Come l'hanno scoperta, per il ruolo del film? 

Come sempre, ho fatto un provino. Tra l’altro Ivan Silvestrini è il regista di Zero, con Antonio Dikele che scrive questo libro che conoscevo già. Quando l’ho saputo ho detto a Luca che dovevo assolutamente far parte di questo progetto storico. Così ho fatto l’audizione per Omar, il protagonista, e lì ho ritrovato la casting Valeria Miranda.

A quali altri progetti ha lavorato?  

Ho appena finito il film La prima regola con la regia di Massimiliano D’Epiro, tratto dallo spettacolo teatrale La Classe, continuo a fare self-tape e collaboro con la moda perché penso sia un aspetto importante nella carriera di un attore. Non che sia fondamentale, ci sono anche attori a cui non importa nulla della moda.

Cosa ne pensa del rapporto tra cinema e moda in Italia?

Purtroppo c’è una divisione piuttosto rigida del mercato. Se sei un attore teatrale, non fai cinema; se sei un attore cinematografico, non puoi fare il grande teatro perché il cinema è commerciale; se sei un attore che veste alla moda allora sei un influencer. Gli attori giovani hanno paura di essere etichettati, ma a me non interessa perché prendo le cose di petto. Penso che la moda sia una forma di espressione artistica. Ultimamente ho guardato Off White e Louis Vuitton per Virgil Abloh, dopo la sua morte. La moda consente di esprimersi, comunicare uno stato d’animo, un periodo della propria vita, attraverso l’abbigliamento.  

Poi c’è l’aspetto del glamour…  

Penso che sia poco considerato. Ricordo che nell’anno della pandemia Carlo Conti ha consegnato i David di Donatello in un’ora. L’Italia ha un problema che non riesco a comprendere, di non riuscire a creare uno star system. Lo star system consiste nel prendere uno o più personaggi e farli diventare icone a livello internazionale tramite i progetti che fanno. In generale, in Italia l’obiettivo è prendere nuovi volti perché almeno sono naturali, veri. La prima cosa che dovremmo fare è rinnovare il mercato nazionale, scrivere testi nuovi. C’è la necessità di raccontare storie come quella di Tre piani di Nanni Moretti, che mi è piaciuto molto.

Com’è il suo rapporto con i social media?  

In Italia il social è un’arma a doppio taglio.

Lei collabora con dei brand di moda, mi pare…

Mi interessa farlo, ma non lavoro per avere più follower. Penso che la crescita dell’immagine attoriale in Italia funzioni attraverso i progetti che si fanno. Sono quelli a determinare il tuo spessore artistico.  

Secondo lei come viene rappresentato al cinema il maschio italiano?   

A questo proposito c’è un libro bellissimo che ho letto che s’intitola Perché siamo ancora fascisti. In generale, l’immagine della mascolinità nell’industria del cinema italiano è di un uomo prevaricatore. Viene dall’ideologia della televisione berlusconiana in cui la donna è una velina, un oggetto di desiderio sessuale, con un valore inferiore e a prendere le decisioni sono gli uomini. Nel cinema la rappresentazione della mascolinità è legata all’aspetto socio-politico di un paese. Il cinema è politico, sono convinto di questo. In Italia si tende a non raccontare le fragilità dei maschi o a raccontarle in maniera assolutoria.

Come ha influito il lockdown sul suo lavoro?  

In maniera drammatica, per diversi motivi. Primo, l’impossibilità di partire con i progetti perché le assicurazioni, in caso di epidemia colposa, non avrebbero garantito una copertura assicurativa - motivo per cui Zero è stato girato a Roma. Secondo, credo che in Italia la pandemia abbia reso un po’ stagnante la creatività, bloccando le idee e le produzioni, anche a livello ideologico. È finito tutto nello sport e nella musica.  

Ha usato i social in quel periodo?  

Li ho usati per condividere le mie interviste o quello che succedeva nel mondo. Ovviamente mi prendo qualche rischio dato che i produttori potrebbero non pensarla come me. Per fortuna, le persone che lavorano con me hanno abbracciato la mia idea di percorso artistico nel cinema italiano, di attore nero di seconda generazione che vuole affermare la possibilità di esistere di un attore giovane, nuovo e italiano, anche se ha un colore della pelle diverso. Essendone consapevole, vorrei contribuire a cambiare un sistema e portare la bandiera della diversità anche nella sessualità. Il messaggio che vorrei trasmettere è che si può imparare da chi è diverso da noi. 

Haroun Fall per 'Man in Town'

Haroun Fall per 'Man in Town'

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