Bibliografia su attori, festival, premi e discorsi sociali
Richard Dyer, Star, Kaplan, Torino 2009
Il saggio di Dyer, pubblicato originariamente nel 1979, è considerato la pietra angolare degli studi contemporanei sul divismo. Lo studioso inglese esamina il fenomeno delle star da tre principali angolazioni, tutte informate dalla nozione di ideologia, cruciale per gli studi culturali, all’epoca in fase aurorale. In quanto fenomeni sociali, le star vanno considerate come esito di un determinato modello produttivo e di consumo, concrezioni di una ideologia egemonica, fondata sul carisma dell’individuo eccezionale e forme di compensazione, ma anche soggette a letture alternative o resistenti. Attraverso la moltiplicazione delle immagini che le ritraggono, le star sono esaminate come prodotti autopromozionali, che attraverso la propria sovresposizione mediatica celebrano il successo, il consumo, il sogno erotico; inoltre, queste stesse immagini specificano le star come tipi sociali, secondo un sistema differenziale capace di coprire una casistica sociale ampia. Infine, le star vengono interrogate in qualità di segni, esito di una costruzione narrativa che fa loro incarnare determinati personaggi e di una esibizione performativa, attraverso la quale concretizzano quegli stessi personaggi. Le acquisizioni del volume di Dyer a tutt’oggi sono fondamentali per esaminare i divi e le celebrità come prodotti sociali, costrutti mediatici da indagare non tanto o prioritariamente come persone fisicamente esistenti, ma come punto di negoziazione e diffusione di idee di attore, soggetto, genere e razza.
“From the perspective of ideology, analyses of stars - as images existing in films and other media texts - stress their structured polysemy, that is, the finite multiplicity of meanings and affects they embody and the attempt so to structure them that some meanings and affects are foregrounded and others are masked or displaced. The concern of such textual analysis is then not to determine the correct meaning and affect, but rather to determine what meanings and affects can legitimately be read in them. How these are in fact appropriated or read by members of different classes, genders, races, etc. is beyond the scope of textual analysis (although various conceptualisations of this will be found throughout the book).” (p. 3)
Richard Dyer, Heavenly, Bodies: Film Stars and Society, Routledge, London-New York, 2004 [1986].
Questo contributo costituisce un approfondimento del precedente Stars, fondato principalmente su tre studi di caso (Marilyn Monroe, Paul Robeson, Judy Garland) della produzione della Hollywood classica. Il punto di partenza fondamentale per l’opera è che le star richiedono un lavoro produttivo (industriale, performativo, comunicativo) che ha la finalità di generare immagini – “lavoro congelato”, in termini marxisti; e che queste immagini sono rappresentazioni della individualità la cui ideologia, distintiva di sistemi economici capitalistici, contribuiscono a diffondere. I modelli individuali che le star incarnano manifestano idee di corporeità, sessualità, razza e sono soggetti a utilizzo da parte di comunità specifiche. Le star infatti sono immagini complesse e stratificate, realizzate attraverso numerosi media e caratterizzate da costellazioni di significati che le star veicolano. A partire da questo assunto, derivano due ulteriori prospettive di indagine. In prima istanza, che lo studio delle immagini divistiche deve rivolgersi alla loro produzione e circolazione attraverso la pluralità dei media coinvolti; in secondo luogo, che tali immagini danno luogo a differenti possibili letture e appropriazioni, funzionali a costruire l’identità dei consumatori e delle comunità cui questi appartengono.
“Star images are always extensive, multimedia, intertextual. Not all these manifestations are necessarily equal. A film star’s films are likely to have a privileged place in her or his image […]. Audiences cannot make media images mean anything they want to, but they can select from the complexity of the image the meanings and feelings, the variations, inflections and contradictions, that work for them. […]. A star image consists both of what we normally refer to as his or her ‘image’, made up of screen roles and obviously stage- managed public appearances, and also of images of the manufacture of that ‘image’ and of the real person who is the site or occasion of it. Each element is complex and contradictory, and the star is all of it taken together. Much of what makes them interesting is how they articulate aspects of living in contemporary society.” (pp. 2, 4 e 7)
James F. English, The Economy of Prestige, Prizes, Awards, and the Circulation of Cultural Value, Harvard University Press, Cambridge, 2005.
Il volume analizza il sistema dei premi nella produzione culturale. Il riconoscimento qui è visto da un punto di vista sociologico, come qualcosa che crea capitale culturale, economico, e soprattutto simbolico, e che influenza le relazioni di potere e il mercato. Partendo da Homo Ludens di Johannes Huizinga e arrivando alle teorie dei vari tipi di capitale e di distinzione sociale postulate tra anni Settanta e Ottanta dallo studioso francese Pierre Bourdieu, il libro inserisce il sistema dei premi culturali in un quadro del funzionamento sociale e dell’economia della cultura molto più vasto.
“Seemingly focused on a manageable, even rather minor object of study—the cultural prize in its contemporary form— the book in fact addresses itself broadly to the economic dimensions of culture, to the rules or logics of exchange in the market for what has come to be called ‘cultural capital.’ In the wild proliferation of prizes since about 1900, this book sees a key to transformations in the cultural field as a whole. And in the specific workings of prizes—their elaborate machineries of nomination and election, presentation and acceptance, sponsorship, publicity, and scandal— it finds evidence of the new arrangements and relationships that have come to characterize that field” (pp. 3-4).
Barry King, Taking Fame to Market. On the Pre-History and Post-History of Hollywood Stardom, Palgrave MacMillan, Basingstoke 2015
Il saggio dello studioso inglese è il punto di arrivo di una riflessione pluridecennale condotta su divismo e celebrità. Esso si interroga su entrambi, assunte quali espressioni dell’antropologia del capitalismo. Attraverso un’ampia e fondata disamina di alcuni casi esemplari, dall’attore teatrale inglese David Garrick, celebrità del palcoscenico nel XVIII secolo, fino all’intermittenza e mutevolezza dello scenario delle celebrità contemporanee, approfondite attraverso casi esemplari quali quello di Macaulay Culkin e Lady Gaga, King mette in relazione le forme di valorizzazione rappresentativa ed economica degli individui in condizione performativa o spettacolare. Per conseguire questo risultato, King indaga le concezioni di individuo, esamina le modalità di interazione sociale coeve ai propri studi di caso, distingue utilmente tra le nozioni di star e celebrità, descrive la relazione tra performance e narrazione biografica, valuta in che maniera la rappresentazione dal vivo o mediata si traduca in un valore economico. L’utilità della rigorosa trattazione contenuta in questa ricerca risiede nel denso sforzo di teorizzazione e astrazione di pratiche concete e storicamente situate, per evidenziare la loro origine in un determinato assetto sociale, economico ed epistemologico.
“What stardom and celebrity share is the perception that fame is a result of individual ‘natural’ qualities that come from outside the collective labour of media production. The different ways in which stardom and celebrity promote this perception is also part of the matter to be analysed. […]. My aim, then, is not to characterize the impact of commodity relationships on culture in general – though this is clearly a literature on which I shall draw – but their impact upon the culture and social organization of acting. I must stress that what follows is a grammar of personhood in acting; I do not essay a close analysis of performances, as there are already plenty of these. Rather, I seek to delineate the strategies of performance that permit acting to refer to the extra-theatrical world through the optic of the market.” (pp. 1 e 4) “Although painters, writers and musicians develop personalities, strictly personae, that affect the reception of their work, the actor as a feigner of appearances, using his or her body as an instrument, is most directly engaged in the exploitation (by the self or by others) of person-based resources of meaning. Broadly, I contend that it is how the cultural meaning of acting is inflected and articulated through the social relationships of commodity production that create stardom and impart a distinctively capitalist form to acting as work. This formative influence impacts and transforms notions of craft distinction, reward and recognition.” (p. 5) “I propose to restrict the term stardom to refer to renown, a condition of fame that rests on excellence in a particular field of human endeavour and the term celebrity to mean being widely known, without any necessary or demonstrable link to specific achievements. Stardom and celebrity can go hand in hand, but they need not – an individual can have celebrity without achieving the highest levels of craft accomplishment or without possessing exceptional talent.” (p. 5)
Paul McDonald, Hollywood Stardom. Il commercio simbolico della fama nel cinema hollywoodiano, CUE, Imola, 2020.
Il saggio dello studioso inglese prende in esame il rapporto tra valore culturale ed economico al cuore dello star system hollywoodiano. McDonald è tra i principali studiosi mondiali di industrie dei media e industrie creative; perciò, la sua ricerca si muove in costante e riuscito equilibrio tra i significati culturali che un attore o un’attrice celebri realizzano nelle proprie apparizioni sullo schermo o nella diffusione della loro immagine mediatica, e la loro funzione nella pianificazione e organizzazione della produzione mediatica. Pertanto, il saggio espone il posizionamento dei divi al vertice della gerarchia professionale hollywoodiana, spiega le condizioni industriali che ne hanno favorito l’ascesa e il mantenimento, avanza la tesi che le star operino come marchi utili a identificare i prodotti e propiziare le scelte di consumo, analizza il ruolo dei divi nello scenario contemporaneo, successivo alla dissoluzione dello studio system, stima il ruolo di box office e sistema dei premi nella valorizzazione delle star.
“It was just noted that film stardom is a multiple-media system. The visibility of film stars extends way beyond the films they appear in to various forms of broadcast, print and online media, involving coverage not only the star’s on-screen existence but also his or her off-screen life. However, the primary concern here is with whatever symbolic and commercial value stardom has for Hollywood film. Inevitably the value is contingent on meanings and effects created beyond film but the primary focus here will be on the symbolic and commercial workings of star brands specifically in the film market.” (p. 8)
P. David Marshall e Sean Redmond (a cura di), A Companion to Celebrity, Wiley Blackwell, Chichester, 2016
Il volume raccoglie, sotto la cura di due dei pionieri e principali animatori del filone dei celebrity studies, una serie molto ampia di contributi dedicati alla cultura della celebrità. Il concetto di celebrità ha una esistenza storica e un’applicabilità assai vaste – dalla cultura alla politica, dallo sport all’accademia: il volume riflette entrambe queste caratteristiche. Attraverso delle sezioni, l’antologia propone una genealogia della celebrità, individua quali ne siano i pubblici, in che maniera essa sia definita da un valore economico e simbolico, ne segue i percorsi globali, ne analizza le tecnologie mediatiche e il valore affettivo, ne interroga il rapporto tra immagine e corporeità, e le forme di identificazione che essa consente ai gruppi sociali e agli individui.
“For a very long time, a culture of celebrity has proclaimed its significance and – though the personalities change – it endures as a remarkable social, cultural, economic and, perhaps surprisingly, political phenomenon. Celebrity circulates through our cultures. It migrates or more accurately invades, sometimes without any resistance by borders and languages. Thus, in 2014 the name Justin Bieber was equally known in China as it was in his native Canada. Celebrities connect to our own identities and our own sense of selves and thereby inhabit an inner-sense of meaning and, occasionally for fans, an outer- sense of proclamation of their personal and collective significance (Redmond 2014). Celebrities are sometimes the conduit for comprehending our world or for someone trying to comprehend cultural values around gender, youth, or class and how these are re-presented through celebrities. Indeed, celebrities operate as a transcendence of categorization in their obvious display of their uniqueness, their singularity and their public visibility and thereby serve as the locus of debate about all forms of cultural codes, etiquette and discussion of what is ‘normal’ and acceptable.” (p. 2)
Alice E. Marwick, Status Update. Celebrity, Publicity, & Branding in the Social Media Age, Yale University Press, New Haven, CT, 2013.
La ricerca della studiosa statunitense esamina la relazione tra la svolta del Web 2.0, le pratiche discorsive dei social network e le forme di celebrità a esse connesse. Il punto di partenza metodologico, di particolare rilievo, è il campione osservato dalla studiosa: sono gli stessi operatori dell’industria dei social network a essere seguiti nelle dinamiche di organizzazione e mantenimento della celebrità, a partire dal postulato che, in quanto gruppo responsabile della progettazione dei canali comunicativi, li disegnino a partire dalla propria cultura produttiva. Marwick contribuisce così a fondare e diffondere il concetto di “microcelebrità”, mette in evidenza la relazione tra celebrità e autopromozione, sottolinea l’importanza dei social network come dispositivi che dislocano sul soggetto stesso il lavoro necessario alla costruzione di una persona sociale e al successo dell’immagine di sé.
“To boost social status, young professionals adopt self-consciously constructed personas and market themselves, like brands or celebrities, to an audience or fan base. These personas are highly edited, controlled, and monitored, conforming to commercial ideals that dictate “safe-for-work” self- presentation. The technical mechanisms of social media reflect the values of where they were produced: a culture dominated by commercial interest. […]. Individuals tend to adopt a neoliberal subjectivity that applies market principles to how they think about themselves, interact with others, and display their identity.” (pp. 5 e 7) “I chose to investigate status in the tech scene so that I could analyse in equality from a perspective that incorporated more than any singular point of view, such as class, race, gender, or sexuality. As I delved into modern conceptions of status, I found that social media’s broadcasting ability has transformed social status, encouraging people to prioritize attention and visibility. Social media tools like Twitter, Facebook, and YouTube teach users strategies and practices to achieve ‘micro-celebrity’.” (p. 10)
Graeme Turner, Ordinary People and the Media. The Demotic Turn, Sage, London, 2010.
Uno dei più celebri studiosi di media e pratiche sociali e pioniere dei celebrity studies, l’australiano Graeme Turner, individua nella contemporaneità una profonda trasformazione nella relazione tra media e gente comune: quello che definisce “svolta demotica”. Il punto di partenza dell’indagine è il ruolo sempre crescente della partecipazione diffusa al funzionamento dei media (p.es.: social network, reality TV, citizen journalism) e la produzione di una cultura della celebrità tanto pervasiva quanto effimera. Quali sono le trasformazioni funzionali dei media che hanno indotto questa svolta? E quali conseguenze sociali e antropologiche recano con sé?
“The strategies through which the media industries have developed popular access to their programming formats are themselves worth examining. This is an age in which the media have been especially active in constructing celebrity, and other forms of identity as well, as the available means to a commercial end. At the same time, the consumption of media has become so individualized and fragmented that the notion that the media should bear some kind of social or community responsibility seems, to many, anachronistic. Paradoxically, expectations that the media might serve the public good seem to have been displaced at the very same time when media performances by members of the public have never been more visible. The function of the media, for so long connected to assumptions about the role of the fourth estate, about its implication in the construction of the citizen, and about the importance of the provision of information to the public as a means of enabling the proper functioning of the democratic state, now looks as if it must be explained in relation to a range of other, quite different, assumptions.” (p. 2)
Marijke de Valck, Film Festivals: From European Geopolitics to Global Cinephilia, Amsterdam University Press, Amsterdam 2007.
Il contributo costituisce uno studio pionieristico del sistema dei festival cinematografici, considerati come componenti di un network globale determinante per la costruzione di valore dei prodotti cinematografici, nella tradizione degli studi socioeconomici e di marketing imperniati sulle fiere campionarie, per generare attraverso indotto economico per un territorio urbano. Per queste ragioni, attraverso quattro studi di caso (Berlino, Cannes, Rotterdam e Venezia), il volume di de Valck considera le interrelazioni dei festival cinematografici con un insieme eterogeneo di interlocutori, istituzionali (amministrazioni locali, regionali, nazionali e sovranazionali), industriali (Hollywood e le industrie nazionali, gli attuali attori dello scenario mediatico), o artistici (avanguardie storiche, critica specializzata…). Infine, la ricerca della studiosa neerlandese indaga la modalità con cui, in uno scenario sociale e antropologico contemporaneo caratterizzato da mobilità e fluidità di persone, competenze e configurazioni spazio-temporali, gli eventi festivalieri offrano forme particolarmente rilevanti per convogliare peculiarità e valori delle culture cinematografiche odierne. Nella prospettiva della ricerca che anima F-ACTOR, la comprensione dei festival come eventi che aggiungono valore e prestigio culturale ai prodotti mediatici programmati, attraverso la propria selezione, rituali di esposizione e sanzione, contribuisce a individuare l’importanza della presenza di divi e attori in questo quadro.
“All these different actors are not simply considered as parts of the larger network, they are the festival network that may end up falling apart when one of the vital links is broken. This implies that, although oppositions between the actors may be played out in (ideological) discourse, they are too much intertwined as a network for anyone t o risk putting words into practice. Let me give an example. Suppose Cannes took a more direct and provocative position against US interference in Iraq and the entire Hollywood film industry and all of its stars suddenly decided that, as a response, they will cease their involvement with the festival for a period of, say, five years, then the festival would surely lose valued media attention and business activity, which would negatively affect the prestige of its competition program and cause the city to collapse into an economic crisis” (p. 206).