Giampiero De Concilio

Intervista a Giampiero De Concilio

6 MAY 2022

Per la serie di interviste dedicate agli attori italiani emergenti (focus group), appartenenti alla cosiddetta “Generazione Z”, volte ad analizzare le pratiche che determinano la validazione professionale dell’attore nei discorsi sociali da una prospettiva di genere, abbiamo intervistato Giampiero De Concilio, nato nel 1999 a Napoli.

Per prima cosa le chiederò di ripercorrere il suo percorso di vita, in particolare l’infanzia…

La mia storia è semplice e poco straordinaria, dal punto di vista degli avvenimenti. Penso sia diventata straordinaria nel momento in cui ho incontrato il teatro. Quando mi è capitato di cominciare avevo circa quindici anni. Diciamo che recitiamo un po’ tutti anche nell’infanzia. Sono nato a Napoli, ho sempre vissuto a Napoli che è teatro per strada, vuoi o non vuoi ci sei immerso.

A casa sua qualcuno aveva fatto teatro?

Ma no. Con mio padre abbiamo sempre visto film internazionali, da C’era una volta in America a Ricomincio da tre di Massimo Troisi. I film e il teatro non sono mai mancati a casa. A Napoli ci sono più di venti teatri, non è una cosa che fa parte di tutte le città, Roma non so, a Roma non mi sono mai voluto trasferire. Mi priverei del teatro a Napoli, che per me è la prima esigenza. Per me il teatro è la prima cosa. Poi nel tempo posso fare tv e cinema, ma non riesco a prescindere dal teatro.

Quando è nata la sua aspirazione a fare l’attore?

C’è una scusa e quello che hai sempre avuto dentro. Forse è cominciato dopo aver iniziato a lavorare. A me era capitato di vedere il set da comune cittadino a Parigi e mi era capitato di vedere improvvisamente, di fronte all’albergo, queste riprese di un film che poi ho scoperto di chiamava Samba, e mi aveva stupito che questo cristiano, come dicono a Napoli, si è fumato ventotto sigarette per una singola inquadratura per tre secondi di girato e quante sfumature potesse contenere quella sigaretta, quali pensieri. Però, come dice Valerio Binasco, che è uno dei più grandi teatranti di tutti i tempi, viene prima il mestiere, e dopo la vocazione. L’innamoramento arriva quando diventi uno scienziato di questa roba, un artigiano. Sarebbe romantico dire che è nata a Parigi, ma mi sono innamorato facendolo, salendo sulle tavole di legno.

Ha mai pensato che sarebbe stato ostacolato in questa scelta?

Sono pochi gli attori che non hanno incontrato un attimo di incertezza dai propri genitori. Faccio parte di quella generazione che aveva difficoltà a dire di voler fare l’attore però l’ho fatto e basta. Già oggi è diverso, oggi è più una moda. Il cinema, il red carpet, ma non è quella cosa lì, è tante cose. Tante cose brutte ma anche tante cose belle. Quando prepari uno spettacolo il novanta per cento è crisi pura.

Com’è arrivato a fare l’attore? Ha studiato?

Quella che c’è scritta sul mio curriculum è una formazione non accademica, non ho fatto questa scelta perché ho avuto la fortuna di salire sul palcoscenico a quindici anni, di fare una tournée, di avere un gruppo, trovarne diversi. Questa è stata la mia formazione, poi fai quelli che oggi si chiamano workshop, laboratori, ne ho fatti diversi, ne farò tanti, piuttosto che chiudermi in un ambiente accademico. Anche perché spesso stare in accademia significa non dover lavorare, perché ti chiudi tre mesi e fai quello che devi fare. Le assenze non sono tollerate. Sono percorsi universitari, siccome lavoro non potrei fare l’accademia.

Quali sono gli obiettivi professionali che ritiene di avere raggiunto?

Sono contento che sto dicendo no alle cose che non mi piacciono e sì alle cose che mi piacciono, sono un amante dell’opera prima di un regista, del palcoscenico nel senso più generale. A teatro direi sì a qualsiasi cosa, nel senso che è talmente mistico, misterioso, quella è una cosa che non mi leva nessuno. In tv e al cinema sto facendo delle scelte. Non perché fare fiction mi fa schifo, non per quello, è che non sono alla ricerca di quelle cose lì. Mi è capitato di farle a sedici anni, ho assaporato l’esperienza, mi è servito, non m’interessa perché ne ho la possibilità. Cerco di esser preso per provini di cinematografia autoriale, quello è il percorso che io cerco.

Qual è stato il suo primo film e com’è arrivato a farlo?

Ho trovato un’agenzia a Napoli, intanto ero in tournée con La paranza dei bambini, uno spettacolo scritto da Roberto Saviano, diretto da Mario Gelardi. Lì mi è arrivato un provino per Un giorno all’improvviso, poi andò a Venezia, andò molto bene. A me portò grandi soddisfazioni per l’esperienza in sé e a Ciro ha portato fortuna. È un film che può viziare un attore alla prima esperienza nel cinema perché c’era enorme dedizione.

Ha mai vinto un premio cinematografico?

Sui premi non so che dirti, mi è capitato di prendere il Biraghi.

Le è tornato utile?

A questi livelli non credo, sempre i provini devo fare, studiare, andare super preparato. Penso sia una di quelle cose che uno deve guardare in punto di morte.

Pensando a questo film che elementi hanno influito sulla sua scelta?

Vado per deduzione. Sento per ora che ogni volta sono stato preso perché non ero andato con dei piani prefissati. Essere malleabile, aperto. Al regista dà fastidio quando vai chiuso con i tuoi piani.

Il provino era su parte?

Ultimamente capita che ti mandano una scena, tu mandi il self tape. All’epoca si andava lì col casting. L’ultimo che ho fatto, era per una fiction che non ho amato particolarmente e ho rifiutato, perché non è giusto per il mio percorso. Il regista stava per webcam, come al Grande Fratello e sentivo la sua voce, tutti con le mascherine, una situazione un attimo... Cos’era, uno studio dentistico.

In generale, pensa che l’aspetto fisico giochi un ruolo nella scelta di un attore?

All’inizio mi capitava che i primi provini mi dicevano volto da fiction, io mi offesi in una maniera. Come se mi dicessero volto da pubblicità, come ti permetti. Ma pure se fosse così, non me lo dire. Ero circondato da colleghi che mi dicevano ma no, ma tu al massimo puoi fare il bravo ragazzo. Col tempo questa cosa è cambiata, me la portavo dentro come un complesso.

Come ha fatto a compensarla?

Sono diventato più cattivo nella vita, il teatro t’imbruttisce. Poi quando…lo sguinzagli. Ci vuole, a Napoli diremmo cazzimma. Però quando serve la cacci. A Napoli c’è questa fissazione per Gomorra. All’inizio fui respinto, due tre provini, mi dicevano ma che vai a fare tanto con quella faccia non ti pigliano. Alla fine mi hanno preso, non che il mio fine ultimo sia Gomorra, non me ne frega niente. Mi sono detto allora qualcuno ha scommesso su di me, e mi hanno rasato pure i capelli, che bello, quindi è stato divertente. Mi sono detto devo riuscire a fare Gomorra e parlare il dialetto. Mo’ ho girato un film a ottobre, mi è capitato questo ruolo che però non è identificabile con niente, era più una persona che un personaggio e questo mi piace molto. L’ho accettato perché non mi era mai capitata una roba del genere. Dopo Gomorra, piccolo ruolo per carità, adesso solo proposte sulla criminalità.

Fuori dal set, cura la sua immagine pubblica?

Non voglio fare quello che non gliene frega. Per esempio non ho Instagram, ma perché non mi serve, non perché voglio fare quello che non ha Instagram. Questa cosa è solo una nevrosi, per l’attore. Stai lì a pubblicare cosa, perché. L’attore, che dovrebbe essere circondato da un alone di mistero, e invece noi ci diamo. La gente finisce per non crederti più perché ti conosce talmente bene attraverso i social. Ma quello è lui? Sta al bar adesso. Un poco di favola, non c’è più. Ai gala vado perché fa piacere ma non riesco a capire bene a cosa serve. Quando per esempio vai a Venezia, alla conferenza stampa, quella roba lì sono fiero di farla. Perché promuovo qualcosa in cui ho creduto. Quindi è bello.

Secondo lei com’è la rappresentazione dei maschi al cinema?

Secondo me questa è una società matriarcale. Il padre è sempre la persona più debole, noi maschi siamo più deboli. Questo per dire che è così. Io sto facendo questo personaggio a teatro, un figlio barbone che va in carcere, il padre scappa perché non ce la fa più a sentire gli insulti della gente, la madre rimane. La madre lo accetta. Secondo me l’uomo deve mettersi al passo con la donna. Dai tempi di Roma noi siamo una società matriarcale. Noi o facciamo il padre padrone, oppure siamo femminucce, non donne. Non riusciamo a essere in grado di metterci accanto alla donna. O tiriamo un pugno o ce ne andiamo piangendo, ed è drammatico.

Secondo lei c’è un cambiamento nei ruoli maschili al cinema?

Piano piano, le cose vanno servite piano perché sennò la gente non va più al cinema. Ancora non è comodo vedere film come America latina, perché ci sentiamo subito indignati. In Un giorno all’improvviso avevo un ragazzino che si occupava della madre malata, in Gomorra li vedi belli duri che recitano dritto, Shakespeare in napoletano, è un codice e va bene. Ma a me sta sulle palle che dovessero parlare così. Ma questi qua non hanno mai paura, io ho visto scene a Napoli di ragazzini piangere. I limiti del personaggio sono il pane di un attore. I lati d’ombra, le ferite.

Le piacerebbe collaborare con i brand del lusso?

L’ultima volta è stato con Icon, una pagina, non sono ancora nelle condizioni di avere una proposta da Gucci. Magari! Noi attori siamo sempre contenti di indossare un costume.

Lei si percepisce come attore professionista?

Mi piacerebbe un giorno potermi definire un teatrante a tutto tondo. Che magari produce un film, che bello sarebbe. Del resto non è che possiamo limitarci solamente a interpretare, ah questo sa le battute bene, motore. Penso sia fondamentale argomentare, mettersi in conflitto, discutere, ritrattare, andare in crisi. Già questo non ci rende semplici interpreti, altrimenti sei lo scritturato. Quello mi dai, quello faccio, che è terribile. Certo se ti capita un grande maestro come Sorrentino lo faccio, perché questo signore quando scrive ha una penna d’oro. Anzi la sfida è quella, cascasse il mondo io quelle parole devo dire. Perché la drammaturgia quella più bella, quella di Shakespeare, da sola è letteratura. Solo in mano agli attori può essere qualcosa.

Cos’ha in comune rispetto alla generazione precedente di attori?

Vorrei solo ereditare da loro, spero, la disciplina e il rigore.

Chi sono i suoi attori di riferimento?

Sono tanti, per dirti qualcuno che lavora sia a teatro che al cinema, Timi, Binasco, Elio Germano. Sono scienziati, lì come generazione dobbiamo arrivare. Con rigore e disciplina.

Giampiero De Concilio

Giampiero De Concilio

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